mercoledì 28 novembre 2007

Paracetamolo

Guardo la confezione e non ricordo. La rigiro fra le mani, ma non ricordo. Compresse da 500 mg esclusi gli eccipienti. Contiene tre blister da dieci compresse, in uno dei tre ne mancano quattro. Tra gli effetti indesiderati mi colpiscono, le vertigini, lo shock anafilattico e soprattutto la sindrome di Stevens Johnson. Quest’ultima, nei casi più gravi, presenta un tasso di mortalità compreso nell’intervallo (5% - 25%). Lo so, stiamo parlando di un semplice antipiretico, ma il fatto di non ricordare mi lascia perplesso. Sulla tovaglia briciole del giorno prima, le posate e qualche resto di cibo, nessun indizio. Il bicchiere è quasi vuoto, rimane poca acqua minerale naturale. Non ricordo di aver bevuto alcolici, oggi, ne sono praticamente certo. Dunque, dovrei essere in grado di rispondere ad una semplice domanda. “L’ho già presa la compressa, questa sera?” Non ricordo. Non ricordo quello che, al massimo, è successo dieci minuti fa. Lo so che non è grave, ma rimango li seduto, a rigirare la confezione fra le mani.
C’è di peggio. Questa notte, in sogno, ho ucciso due amici di gioventù, e mia nonna, morta ormai da tempo, mi spiegava come fare per non farmi beccare.
Comincio a farmi paura.

domenica 25 novembre 2007

Il posto mio

Il posto mio
(A. Testa, T. Renis - 1968)
Vorrei vedere un altro al posto mio
non so se lui farebbe quello che faccio io
sono lo scendiletto su cui cammini tu
cammini a piedi nudi fin da quando
ti svegli al mattino
sto qui come uno specchio a dirti che
esisti sulla terra solo tu
tu leggi nei miei occhi tutta la fedelta'
di un cane che ubbidisce solo a te
io sono quello che ti da' ragione
anche se hai torto marcio solo perche' sei tu
per me che t'amo tanto sei giusta come sei
ti so capire in tutto perche' vivo soltanto di te
vorrei vedere un altro al posto mio
ma no non ne parliamo il posto e' mio
anzi ti chiedo scusa mi son sfogato un po'
sai già che al posto mio io restero'
(Renzo Arbore e i suoi Swing Maniacs)
(2005)

sabato 24 novembre 2007

Nessuna meta

Mi sveglio. Oggi non devo alzarmi. Pochi secondi e comprendo che non è stato un sogno, in questa mia vita è stato tutto fin troppo vero. Il buio che mi avvolge comincia da subito a nausearmi, senza un motivo, spalanco le imposte e torno a sdraiarmi sotto al piumone. Non ho nessuna voglia di affrontare questa giornata, perché questa giornata è cominciata male. Lo sento nell’aria, nella pesante presenza di questa mia solitudine, così nauseabonda e fastidiosa. Guardo il cielo, grigio e stufo, e lascio che questa luce stanca entri nei miei occhi cadenti. Cerco qualcuno o qualcosa al mio fianco, ma niente è mai presente vicino a me. Sospiro e rantolo, come un vecchio senza forze, consumando un po’ di questa giornata orrenda, nell’attesa di trovare un motivo che mi faccia alzare. Questa casa, la migliore da anni, meriterebbe un inquilino migliore, qualcuno meno morto di me. Con un odio dentro, così forte da soffocarmi, mi trascino verso una poco probabile colazione. Ieri sera, ho noleggiato un DVD, poi mi sono addormentato sul divano e l’ho lasciato girare invano. Lo guardo adesso.
Non so come farò a proseguire questa giornata, così pesante ed insopportabile, comincio a temere di non riuscire a trovare la forza necessaria per continuare a sperare. Lavo i piatti e metto apposto, nel limite delle mie possibilità. Mi vesto ed esco. Nessuna meta, come sempre. Nessuno da incontrare, come sempre. Mi rifiuto di andare a fare la spesa, non ne ho il coraggio, muovermi fra gli scaffali, ricolmi di cibo, potrebbe essermi fatale. L’aria è appiccicosa, a tratti disgustosa. La macchina si muove regolarmente e mi porta in una delle tante città venete. Non ho l’ombrello, piove copiosamente. Scendo dalla macchina e m’incammino verso nessuna meta. La pioggia comincia a penetrare nelle scarpe, nei pantaloni e lungo il collo. Cammino assente da me, come non mi era mai successo. So di essere vivo, ma non riesco a capire fino a che punto.
Prendo in mano un CD e cerco di leggere i titoli che lo compongono, quando alcune gocce bagnano mano e copertina, mi rendo conto di essere completamente lavato. Passo una mano fra i capelli, ma la fermo subito, c’è così tanta acqua che rischierei di far affogare le persone che mi circondano, meglio tenermela in testa. Forse questa volta riuscirò ad ammalarmi, un bel febbrone da cavallo, qualcosa di pesante, qualche mese di mutua. Compro un po’ di musica, che si rivelerà, in seguito, una schifezza, ed esco per riprendere il colloquio con l’acqua del cielo.
Mi infilo in un ristorante, senza capirne il motivo, e seguo la cameriera che mi lascia ad una tavolo con una smorfia di circostanza. Mi siedo, ordino ed aspetto. Se qualcuno mi chiedesse cosa vuol dire solitudine, gli risponderei “pronunciare le prime parole della giornata alle 19:30 – tagliatelle agli eremitani – ad un cameriere che non rivedrai più”.
Il desiderio di fumare è enorme, ma la mia apatia è tale da impedirmi anche solo di immaginarmi mentre mi accendo una sigaretta. Salgo in macchina e guido verso casa. Mi ritrovo bloccato in un ingorgo. Da qualche parte, qui vicino, questa sera si terrà un concerto.
Ti prego, regina delle cartomanti, leggimi il destino, dimmi che non mi resta più molto da vivere, salvami, tu che puoi, da questo mio orrendo futuro.
Entro in casa, senza voglia di continuare, e stappo la prima bottiglia. Questa sera voglio bermi anche l’anima. Caro massimo, vai a fare in culo.

giovedì 22 novembre 2007

Questa sera

Questa sera, ritorno a farmi un po’ di compagnia. Sono stanco del male che continuo a farmi, e pur sapendo di non poter smettere realmente, cerco di dimenticarmene almeno per un momento. Non credo di poter curare la mia solitudine scrivendo i mie pensieri attraverso una tastiera.
Ci ho provato.
Continuerò a farlo, nello stesso modo o in maniera differente, ma non questa sera.
Stanco di me e del mio modo di vedere le cose, confesso l’evidenza di aver compreso che non serve a nulla pretendere di poter condividere noi stessi con altre persone. Non era per niente importante che la persona che cercava in me solo una piccola cosa, non restituisse ai mie occhi la comprensione del mio essere complicato. Non molto avrei dovuto restituirle, un abbraccio caldo e forte, una carezza e poche domande, semplici, ma vere, magari anche uguali a quelle del giorno precedente.
Temere le conseguenze di scelte non fatte, solo perché altri, molto vicini a te, le stanno ancora pagando, porta a quello che sono. La procreazione come generazione di dolore è pensiero di persona debole e forse troppo piccola per difenderne il contenuto.
“She can kill you with her smile”, lei può ucciderti con un sorriso. Questo vorrei provare. Ma non funziona così.
Oggi ha piovuto. Tante parole sono state scritte sulle gocce dal cielo, ne ho scritte anch’io nel passato, ma oggi la pioggia ha fatto una cosa molto semplice, mi ha bagnato. La coda in autostrada, in compagnia di un collega, di ritorno da una trasferta, non è stata niente di più. I due panini per pranzo e le parole scambiate, non hanno cambiato il destino del mondo. Le notizie alla radio non mi hanno infastidito.
Questa sera, ascolto la mia voce senza pretese.
Questa sera, accetto le tue critiche.
Questa sera, mi siedo accanto a me e mi tengo un po’ di compagnia.

domenica 18 novembre 2007

Settimane

Stappo la prima bottiglia, fresca, secca, ruvida, scende lasciando il segno. I primi sorsi vengono sempre seguiti da smorfie di sopportabile fastidio. Sono bei momenti, ha inizio la quiete. La settimana, per me, finisce il sabato sera, buttato via nel cestino. Niente che valga la pena fare fuori casa. I muscoli e i nervi chiedono di restare in santa pace. Perché poi, la pace debba essere santa? I santi sono quasi tutti martiri, che il martirio sia sinonimo di pace?
Le settimane passano senza lasciare traccia e con gran difficoltà distinguo in quale periodo mi trovo. Il calendario m’indica che ormai siamo oltre la seconda metà dell’undicesimo mese. Un altro anno scivolato via, perso in momenti senza ricordo, in fatti senza importanza. Come fare a non pensare a Battiato? A “come ho speso male il mio tempo, che non tornerà, non ritornerà più.” Questi enormi lenzuoli, sui quali ho solo poggiato i piedi, come grandi fogli di un gigantesco calendario, senza capirci nulla. Dove mi sono lasciato andare? Quando ho mollato?
Questo fiume, che continuo a vedere nei miei ricordi, in mezzo a montagne che tanto del mio dolore custodiscono, mi chiama senza voce. La voglia di salire in macchina e di guidare per oltre cento chilometri, che mi separano da questo ricordo, è molto debole. Ricordo di luoghi che mi hanno visto solo di passaggio, ricordo ricorrente e paranoico.
Se la gioia di vivere mi ha tenuto compagnia, io non me ne sono accorto, ma le sono grato comunque.
Ricordi della città dei miei studi alti, di una parete inclinata, la facciata di una chiesa. Le sigarette fumate, mentre correvo tra aule e collegio, con lo sgabello sotto il braccio e gli occhi a seguire linee regolari fra i porfidi. Il primo semestre, il migliore. Buio e freddo, pieno di nebbia e silenzi, odiato con tutto me stesso e adesso quasi gradevole, prezioso ricordo, del mio essere stato nulla anche allora.
Verso questo liquido nello stomaco e riempio le mie orecchie con note d’ogni genere. La voce di Fish fa male, ma io non lo sento più. “Tu stai male, perché a te piace stare male.” Così, quella che è stata la mia vita per dodici anni, liquidava la nostra prima settimana.
“…when I look into your eyes, I don’t know what to say to you…” eggià, non l’ho mai saputo, come si fa a dire quello che non può essere ascoltato?
Hai mai fatto caso come l’arpeggio di chitarra sia in grado di aprirti i recettori delle emozioni? Io lo sto subendo ora, in questo momento, ed è piacevole, come una puntura sulle tempie.
“Posso lasciarti un omaggino simpatico?”, così la mia barista preferita, quella sempre incazzata, mi ha spiazzato tre mattine fa. Non riuscivo a crederci, donna tutta di un pezzo, seria e severa, mi sorride e mi dona un portachiavi made in china, gadget pubblicitario inutile, ma in grado di lasciarmi senza punti fermi. Non è più incazzata, non è più lei. Cosa le sarà saltato in mente?
Altre parole raggiungono le mie orecchie, ed altri ricordi affiorano. Se non vivi la tua vita, non ti resta che ricordarla. Anni trascorsi lungo la pedemontana, muffa sui muri, riscaldamento spento per risparmiare, niente mobili. Quelle grosse lumache, senza guscio, che calpestavo quando uscivo, distratto, a sbattere la tovaglia. Caro il mio passato mal speso, potrai mai perdonarmi? Ti ho odiato quando eri presente, ti preferisco ora che sei lontano.
Gli addobbi per il grande “varietà religioso”, mi hanno quasi nauseato, dovevo solo comprarmi la cena, cose da single, non ero certo pronto a subire quella violenza di colori e luci, a novembre, ma come siamo ridotti?
Vorrei poter dormire, ancora una volta, in quella casa sopra la stazione. Fammi un regalo, solo per questa notte, fammi addormentare lungo quella ferrovia piemontese, tu puoi riuscirci, ho bevuto abbastanza, non sarà difficile.
Ciao.

venerdì 16 novembre 2007

Buio

L’asfalto nero e scuro scorre sotto le ruote gommate di questa scatola. Questa scatola che, ogni sera, mi riporta da dove sono partito. Non si può distinguere il cielo buio e privo di colore, da tutto quello che vi dorme sotto. E’ buio ed è tardi.
La mente si muove da sola, inseguendo pensieri che non portano da nessuna parte. Paura del buio. Non ho paura del buio, quello che posso vedere con gli occhi, quello delle stanze che compongono la casa in cui abito, nemmeno di quello delle stanze che non conosco. Non ho paura del buio, ho smesso anni fa. Temo, però, il buio che si annida in me, in luoghi che non vorrei contenere, in forme che non vorrei sentire, in modi che non vorrei conoscere. Mi chiedo se potrò mai comprenderlo, mi chiedo se sia vero o se sia solo una mia percezione distorta della realtà, che filtra attraverso la mia storia, attraverso il mio passato, iniziato nella culla e cresciuto assieme a me.
Sono in ritardo, mi sto aspettando da troppo tempo e non riesco in nessun modo a raggiungermi. Aspetto di potermi parlare sul serio, di potermi perdonare, di stringermi la mano e, con una pacca sulla spalla, indicarmi la strada da seguire. Aspetto da tempo ormai.
In queste condizioni raggiungo casa.
Apro il frigo, ci guardo dentro, e mi intristisco. Non che prima io fossi felice, è solo che quello che i miei occhi vedono aumenta di un po’ la tristezza, che già mi tiene compagnia. Mi riesce difficile ammettere di essere riuscito ad ottenere quello che volevo, per poi rendermi conto che non volevo nulla. Una casa vuota, non mia, un frigo vuoto, non mio, una vita vuota, non mia.
Capisco di non poter proseguire, per questa sera credo possa bastare.
Perdonami.
why are you running away? …

lunedì 12 novembre 2007

Ieri

Parcheggio il mio carro piccolo, in un parcheggio a pagamento, nel quale i posti sono stati tracciati da un idealista, privo di senso pratico. Dieci manovre e tre carrozzerie rovinate, ogni volta che qualcuno entra od esce da questo claustrofobico luogo. L’unico suo vantaggio è l’essere situato a cinquanta metri dal centro. Non ho con me, né maglione, né giacca, dovevo andare a nuotare, qui io non dovevo venirci. Scendo in maniche di camicia e prelevo alcuni dei miei euro da un distributore bancomat, “digiti il codice senza farsi osservare”, deve essere uno scherzo.
Le vie del centro sono piene di gente, coppiette, bambini, famiglie, nonni e nipoti, comunitari e non, tutti in movimento, tutti in apparenza vivi. Mi muovo cercando di non dare nell’occhio e m’infilo in un noto negozio di CD ed affini. Cerco fra le novità e rimando l’acquisto di Vecchioni senza capirne il motivo. “Mi scusi lei lavora qui?” No signora, mi dispiace. Povera signora, non ha tutti i torti, non potrò mica essere un cliente così imbecille da girare in camicia, quando tutti indossano voluminosi giacconi e paltò colorati. Quando non voglio dare nell’occhio, ci riesco sempre.
Mi dirigo verso un altrettanto noto negozio di libri. Lungo il tragitto, non posso fare a meno di notare la coppia che mi viene incontro, lei sfoggia le sue grazie con estrema scioltezza, tanto da farmi pensare che, o non fa così freddo come sembra, oppure si è anestetizzata l’armamentario. Non dovrei far caso a queste cose, ma la carne è debole, anche se la mia la pensavo imbalsamata da tempo. Sarà.
Un tango per fisarmonica e tromba, che spettacolo. Che sia questo il motivo per il quale mi trovo qui? Ma che motivo vado cercando, non c’è mai stato nessun motivo per nessuna situazione, sono figlio del caos, una semplice variabile aleatoria. Rido di me, con soddisfazione, e accenno qualche passo danzante. All’interno, mi dirigo spedito alla ricerca di qualche novità sull’oro nero, ma nulla di nuovo è stato pubblicato. La corsa si è fermata a 98,6 $/b, dovrò aspettare ancora per festeggiare la fine di questa nostra caotica ed inutile civiltà, ma rimango fiducioso. Vado alla cassa con ‘Elementi’ e ‘La lunga notte del dottor Galvan’. “Ha la tessera?” No grazie. No grazie? Ma che risposta ho dato?
Un giocoliere lancia in aria palle colorate, le immagino restare sospese, catturate da un campo antigravitazionale, ma quando toccano terra ricordo il concetto di forza peso, vettore dotato di direzione e verso. Verso il basso, come il mio sguardo, che sia colpa della lettera “g”?
Sbaglio strada tre volte, il mondo si sta riempiendo di rotonde, e alla fine torno a casa.
Leggo e faccio gli homeworks, passo l'aspirapolvere e lavo i piatti.
Scriverò domani.
Ma questo è accaduto ieri.

domenica 11 novembre 2007

Monotonia

Bevo a canna “La Biere Du Demon”, 12 gradi di salute alcolica. La settimana si è chiusa con una piena giornata di lavoro, e senza alcuna voglia di abbandonarmi fra le braccia di Morfeo, combatto con la stanchezza, cercando di tenere gli occhi aperti. Occhi criccati, con spaccature rosse a demolire lo sfondo bianco, occhi impolverati, occhi bassi e maledettamente stufi. Bevo a canna e scrivo, non lo faccio in silenzio, ma ascoltando un brano suggeritomi giorni fa, in continuazione, come mi capita spesso, “Give a man Home”. Ogni tanto, la mia voce esce spontanea ad inseguire il coro, aggrappata ai vapori etilici; è tardi, non posso esagerare, vivo in un condominio, qui c’è gente seria. Dio del sonno, lascia che io spenda ancora un po' del mio tempo in compagnia di Dionisio, non strapparmi da questo limbo, lascia che io ne scriva, rubando tempo che non è mio ad occhi che non conosco. Lascia che io possa raccontare il mio essere uguale a me stesso, che io possa confessare la mia debolezza, la mia incapacità di cambiare. Versami da bere, non nel bicchiere, ma direttamente in me, riempi questo corpo di torpore e lascialo sospeso, ne sveglio, né sognante, qui tra il prima e il dopo, tra il niente e il tutto. E’ questa la mia vita, polvere e briciole a terra, piatti da lavare nel tinello e spazzatura da portare fuori. In ginocchio sulla sedia, di fronte al video, luci spente, volume basso, uomo inutile. Inutile a se stesso e ancor di più al genere umano, vita sprecata, equalizzata da sentimenti non compresi, da ignoranza emotiva. Dio della disperazione, respingi questo imbecille, percuotine le carni, richiamalo alla realtà. Se ci sei, lasciami respirare, sospeso in questa non dimensione, in questo ballo fluttuante nel nulla. Se non puoi darmi tregua, concedimi ancora poche righe, poche lettere, lascia che io possa raccontare la mia costante monotonia, la mia insana capacità di non cambiare, di non mutare. Dannato io sia, e tutto quello che mi verrà incontro. Zicar non tentarmi, non offrirmi quello di cui adesso avrei bisogno, non lo fare, lasciami solo, con quest’inebriante liquido ricco d’ossidrili. Rido con lacrime vere, rido di me, e ne sono capace, in maniera sincera e naturale. Rido di un uomo ubriaco, dell’inferno che mi aspetta e del fuoco che arrostirà la mia carne per l’eternità. Vieni adesso, ti aspetto, sono pronto a venderti l’anima, non m’importa il prezzo, comprala, fanne quello che vuoi, ma vieni subito, prima che io cambi idea, Ade sono qui. La tua birra non cancella la monotonia della mia esistenza, non strappa da me il dolore di una vita sprecata, di un egoismo schifoso e prepotente, di una solitudine crescente, senza limiti ne confini. Vivo questi minuti d’esistenza senza chiedere nulla, lascio scorrere questo nettare e lo aspetto, con gioia, a rallentare e distorcere le sinapsi. Bevi, idiota, bevi, non fermarti, è questo il miglior momento della tua giornata, assaporane la deformazione, l’incapacità sensoriale, il venir meno della ragione. Cambia note, cambia nenia, non cedere al dolore, fronteggialo. Come puoi, tu che leggi, tornare su queste pagine? Fammi capire, com’è possibile? Se potessi condividere con te quello che sto vivendo, quello che mi sta uccidendo, ma non posso, le regole del gioco non le decido io. Non andartene, non lasciarmi qui, aspetta ancora un po’, ho quasi finito. Ascolta la mia atonalità, la mia non diversità, la mia monotonia.
Perdona quello che non sono riuscito a restituirti, e concedimi un’altra possibilità, cercherò di migliorare.
Questa notte, posso solo sistemare le note, su di una sola riga, a creare un perfetto esempio di monotonia.
L’ultimo sorso è il nostro brindisi e la nostra buona notte. Dormi bene.

venerdì 9 novembre 2007

Buco nell'acqua

Mi allontano da me stesso, lo faccio approfittando della mia stessa distrazione. Rendo deboli i miei sensi, più di quanto non lo siano già. Peggioro la vista togliendomi gli occhiali, abbassando la luce e aspettando la sera, quando la grigia patina della giornata si è ispessita, fino a rallentare il battito delle palpebre. Congelo le dita per ridurne la sensibilità annullandone le capacità tattili. Elimino fonti di rumore ed odore, chiudendo porte e finestre, tappando aperture e feritoie.
Cerco di capire cosa resti di me, senza stimoli dall’esterno, senza distrazioni sensoriali, solo con il mio cervello, solo con il mio contenuto. Mi guardo da lontano, da diverse prospettive, dall’alto e dal basso, da sinistra e da destra e non riesco a capire quel che vedo. Non guardo con gli occhi e forse non sto nemmeno guardando, ma quello che percepisco non mi piace. Vorrei farlo vedere anche a te, che porti i tuoi occhi su queste parole, vorrei osservare la smorfia sul tuo volto, vorrei confrontare i nostri punti di vista. Lo vedi anche tu l’egoismo? Provi anche tu questo fastidio?
Lascia stare, non badarmi, sto sprecando il nostro tempo. Sto cercando, ancora una volta, di fare un buco nell’acqua.

domenica 4 novembre 2007

Tappeto di foglie

Esco di casa, senza alcuna meta, con il motivo che mi ha spinto ad uscire stretto nelle mani, la spazzatura. Lasciata la mia produzione settimanale nel cassonetto, mi dirigo verso nessun luogo. Il silenzio domenicale mi fa stare tranquillo e il cielo, azzurro sbiadito, rende sopportabile questo mio camminare. Un cinese con i baffi, mentre guarda dentro ad un’auto, fuma nervosamente, avrà dei problemi anche lui. Sulla vetrina di un’agenzia di viaggi, un cartello rosa, circondato da cuoricini, recita “è nata Tania”, penso che dovrei scusarmi con questa neonata per non essere riuscito, in nessun modo, a migliorare questo mondo schifoso. Fallimento totale, su tutti i fronti. Mi ritrovo presto a camminare sul ciglio di una strada molto trafficata, senza marciapiede, non ho capito come ci sono arrivato, ma ormai non posso far altro che proseguire. Fa caldo, mi tolgo il maglione, nel taschino della camicia trovo il biglietto del cinema, fila J, posto 14, sabato 3 novembre, dimentico molto velocemente quello che mi accade. Raggiungo un canale, che scorre fra strada e pista ciclabile. Decido essere meglio schivare biciclette piuttosto che auto. Non sono l’unico e mi ritrovo presto in una processione, di cani, anziani, bambini, biciclette, donne, coppiette ed idioti come me, non molti a dire la verità, in tutta onestà, oltre a me, nessun altro idiota. Vengo superato da un piccolo di uomo che sfreccia sulla sua piccola bicicletta, inseguito dal padre urlante, che lo implora di fermarsi, arrancando su di una bicicletta reale. Più avanti, un altro padre accarezza il figlio addormentato sul seggiolino, ancorato al retro della sua bicicletta. Lasciata la pista ciclabile, mi infilo in stradine poco battute, passando davanti a svariati cancelli, posti a protezione di giardini privati fronte villetta. Un cane mi abbaia contro tutta la sua frustrazione e viene prontamente ripreso dal suo padrone “luna no, ho detto no, luna”, gran bel nome da dare ad un cane, davvero bello. Su di una panchina, in un giardinetto pubblico, due giovani si baciano, una fitta al petto, dove una volta cera il cuore, mi spinge ad accelerare. Ci sono già passato, poi deve essere successo qualcosa, qualcosa che non ho capito, paura, egoismo, imbecillità, e passi dal bacio su di una panchina ad una passeggiata, da solo, trascinando la tua esistenza. Riprendo il controllo e mi rendo conto, solo adesso, che sto camminando su di un tappeto di foglie morte. Bianche, gialle ed arancioni, secche e morbide, ricoprono l’asfalto, nascondendo le mie tracce.
E’ un caldo autunno, io continuo a camminare.

Respiro

Riempio i polmoni di aria, un grande respiro, inspiro ed espiro dal naso. Niente nicotina, monossido di carbonio e benzopirene, non fumo da più di un mese, ma nulla è cambiato. Sento i polmoni gonfiarsi e sgonfiarsi, mentre fanno entrare ed uscire aria rubata a questa stanza. Aria tiepida, riscaldata artificialmente, aria polverosa di mobili velati. Respiro, sempre più profondamente, ma nulla cambia. Il cuore pompa il sangue ricco di ossigeno, ma nulla cambia. Allora spalanco una finestra, lascio entrare l’aria fredda e umida. Inspiro con il naso, riempio il torace, ma nulla cambia. L’aria è sporca, drogata, pesante, respiro la sua disgustosa composizione e nulla cambia. Esco di casa, sbatto la porta alle mie spalle e scendo le scale. Odore di cibo filtra da altre porte, affretto il passo e spalanco il portone, sono fuori. Inspiro tutta l’aria che posso, espiro ed inspiro, più volte, ma nulla cambia. Allora mi muovo, vado a destra e poi a sinistra, vado dove mi portano le gambe, senza guardare, senza pensare, senza alcuno scopo. Respiro, sempre più affannosamente e nulla cambia. Sono circondato dall’aria, fra i capelli, tra pelle e vestiti, appoggiata agli occhi, nelle orecchie, respiro, ma non cambia. I passi si fanno sempre più veloci, non vedo quello che ho davanti, non faccio caso alle poche persone che incontro, respiro, sempre più in fretta, senza sosta, non cambia. Mi ritrovo a camminare su erba marcia, circondato da alcuni alberi, vecchi e intossicati, un animale volante emette un suono già sentito, respiro, niente da fare, non cambia. Mi fermo, sudato e rigido, piego la schiena verso il basso, appoggio le mani sulle gambe e respiro, sempre più lentamente, senza pensare, dimenticando, lasciando stare tutto come sta. Non ci faccio più caso, respiro senza farci caso e mi calmo. Senza farci più caso. Quante volte l’ho sentito dire “non farci caso”, quante volte ci ho provato e quante ci sono riuscito. Anestetico, calmante, antidolorifico, tutto racchiuso in una frase, tutto fingendo di non essere dotato di sensi, tutto cercando di non ascoltarli. Resto qui, piegato a testa in giù, respiro, ma non me ne accorgo. La mia anima, oggi, ha smesso di farlo.

giovedì 1 novembre 2007

Cellophane

E’ cominciato dal basso, lentamente, giorno dopo giorno, con un sottile formicolio ad un piede. Un processo innaturale, fuori dal mio controllo e dalla mia consapevolezza. La pelle non respira più, le cellule cambiano colore e, se ci fai attenzione, puoi accorgerti della mancanza di una piccola porzione di te. Ma non ho fatto attenzione, e ho proseguito la mia strada con indifferenza. La cosa è andata avanti, prima l’altro piede, poi la gamba fino a sopra il ginocchio e a seguire l’altra gamba. Sempre più stretto, sempre più aderente, questo strato artificiale, ha costruito una barriera, una veste, una seconda pelle. La carne, con i pori otturati, non scambia nulla con l’ambiente e comincia a marcire. La puzza resta isolata, e nessuno si è mai accorto di niente, nessuno ha mai visto la carne marcia che riveste le mie gambe. Le articolazioni fanno male, ma il dolore è sopportabile e l’ho dimenticato con il tempo. Senza alcuna intenzione di fermarsi, questo polimero trasparente è salito fino all’ombelico, stringendo l’addome come una panciera perfetta. Così è cominciato il dolore attorno ai reni, sottile e costante. Con il corpo così conciato, ho continuato a proseguire, senza voltarmi, senza cercare forbici, senza alcuna intenzione di tagliare quello che stava isolando il mio involucro dal resto. Con oltre la metà del corpo priva di sensibilità, la vita mi è risultata più facile. Posso urtare contro qualsiasi cosa e niente è in grado di procurarmi un dolore più grande, di quello che già sto gustando. Con il tempo, ho quasi finto che non esistesse questo strato di carne artificiale, sopportando i dolori al petto e alle spalle, senza lasciarmi scoraggiare.
Questa mattina, davanti allo specchio, senza la maschera (quella la lascio in macchina), ho visto il mio volto putrefatto e piagato, sotto questo film trasparente, che nulla lascia libero, ed ho capito di essermi sbagliato. Ho sbagliato a non tagliare questo film, quando, con le mani ancora libere, avrei potuto farlo, ho sbagliato a non chiedere di farlo a qualcun altro, quando le mie mani non ne erano in grado, ho sbagliato a fingere che il dolore non sarebbe aumentato, ho sbagliato.
Ma gli errori si pagano, e senza lamentarmi più di tanto, ho lasciato la mia immagine riflessa nello specchio assieme a questi miei pensieri, per proseguire la strada che ho davanti. So che mi porterà ad una fine, che in cuor mio spero vicina, sicuramente meno inutile di quanto non sia il mio tempo, speso calpestando questa terra.
Oggi è una giornata gioiosa, che io l’abbia in gloria.
E' solo idrato di cellulosa.

Notte delle streghe

E’ l’ora di mezzo, quella in cui il sole appare nel suo punto più alto. Ho lasciato il carro gommato fra linee blu, non ho monetine, non posso farci niente. Devo consegnare una provetta. Cammino velocemente con questa busta in mano, nelle orecchie musica calma, colonna sonora sbagliata. Le onde elettromagnetiche visibili riscaldano il mio volto, io cerco altri volti, voglio capire chi gira per il centro a quest’ora. Tanti volti, tutti molto veloci, nessun sorriso. Due signore, con camice bianco, mi invitano a salire al terzo piano. Qui trovo il primo sorriso, di circostanza, e le lascio la busta con la provetta. Mentre scendo le scale, immagino che la provetta si sia svuotata durante il tragitto, cosa poco probabile, ma in linea con le mie fobie. Di ritorno, sorrido di me, mentre mi sforzo di tenere la testa alta.
Non si vede più il sole, molte ore sono passate, quando esco da un luogo inutile. Nelle orecchie riecheggia un suono, un suono ricco di ricordi, di sere passate con rabbia, senza consapevolezza, lontano dalla vita, molti anni fa. E’ il suono di piccole esplosioni, esplosioni allo zolfo, che riempiono le narici di freddi ricordi. Vorrei fermarmi, non andare avanti, lasciare la strada ormai segnata ed aspettare qualcuno, qualcosa di nuovo.
Domani sono libero, riposo, senza impegni. Questa notte posso non dormire, questa notte posso sognare. La voce dal passato, con quel tono e quell’indifferenza, mi riempie di un nuovo futuro, aiutandomi a tracciare una nuova strada.
E’ la notte delle streghe, sto per vomitare.