lunedì 31 dicembre 2007

Aspetterò

Rinchiuso in questo volume, avvolto da pareti, bevo tutto lo schifo che lascio alle mie spalle. Osservo una freccia urlante, lanciata da un sax rauco, disegnare improbabili traiettorie in un anonimo entroterra. Nella gola scende un retrogusto amaro, di cantina umida, da cocci di terracotta, vicino un pacchetto di listelli di carta tenta il mio futuro prossimo. Non di questo mondo sono le urla che trafiggono le mie orecchie, sono orde di locuste impazzite, insaziabili si nutrono della mia carne. Versami il nettare scuro, che io possa dimenticare la strada, che io possa perdermi in questo dedalo. Non lasciare alcun segno, non mostrarmi la via, lasciami solo, senza meta, versa e non parlare. Ho sentito narrare di una fine, una fine prossima, una fine di attesa, attesa di un nuovo inizio. Non capisco, non comprendo, cosa potrà mai cominciare? E‘ un suono, è un sibilo, pulsa, senza ritmo, senza melodia, sussurra la sua follia, ben nota ai miei neuroni. Niente gravità questa sera, lo stomaco non pesa, ho lasciato la testa fluttuare, cerco questo impulso, questo suono sincopato. Non conosco queste voci, non voglio ascoltare queste voci, falle smettere, falle tacere. La mia cara vecchia regina, quanto tempo? Non ho dimenticato, come potrei? Cara vecchia regina. Non posso crederci, anche adesso, qui, in questo momento, cerchi caldi ed umidi mi avvolgono con strette di dolore, strappano la pelle dalle braccia, lasciando fitte di dolore sugli strati di carne nuda. E’ un tuono lontano, no, è vicino, mi avvolge, mi piega. Scappo, ma le gambe non corrono, scappo, ma non mi muovo, sono finito, la testa è bassa, come sempre, la testa è pesante, come sempre. Spiegami come disegnare il domani, guida la mia mano, che io possa tracciare giusti confini, non permettere che io continui nell’errore, colora questi fogli, dai vita ai miei giorni. Una delle prossime albe, troverò la strada, e senza indugio la percorrerò, non porterò nulla con me, perché nulla mi servirà, solo delle buone scarpe, dicono che la strada sia lunga. Odore di zolfo riempie le mie narici, non è l’inferno, niente attacco di cuore, niente Belzebu, solo cori di voci nascoste nella notte. Non sono vivo, non sono io, ho perso tutto quello che sono stato, ho perso tutto il rispetto, ho perso la dignità, non sono vivo. Dopo lo spettacolo dove vanno gli attori? Ma questo è uno spettacolo? Sono io un attore? Non volevo recitare questa parte, non ci sono battute, non ci sono dialoghi, c’è solo dolore, inutile e costante dolore, colpevole ed incurabile dolore. Fammi ascoltare la tua voce, sussurrami il tuo nome, tienimi compagnia, in questa sera distorta. Cosa pensi che stia facendo? Mi maledico, scrivendo la mia incapacità di vivere, la mia stupida ottusità, la mia pochezza. Cosa direbbe di me Darwin? Suonerebbe le sue note italiane? Soccorrerebbe la mia mente? L’olio di pietra è ormai cosa rara. L’energia tende a minimizzare il suo potenziale, per questo cado a terra quando perdo l’equilibrio. Ho smesso di credere, ho smesso di sperare. Uscirò, camminerò ed aspetterò.

No grazie!

Le malattie vengono classificate ufficialmente tramite il sistema ICD9-CM; per consultarlo è sufficiente visitare il sito del Ministero della Salute. I “Disturbi Psichici” sono compresi nei codici che vanno dal numero 290 al numero 311.
Nel Rapporto Nazionale del 2006 “Uso dei farmaci in Italia”, emesso dall’Osservatorio Medico, si legge che è possibile curare con farmaci alcuni dei disturbi psichici. Per la precisione è possibile trattare la Depressione Maggiore, i Disturbi Nevrotici, i Disordini Psichiatrici e le Psicosi non Organiche.
Per tutte queste patologie, ammesso che lo siano, sono quattro i principi attivi più prescritti, e di conseguenza assunti: Paroxetina, Citalopram, Sertralina, Escitalopram. Questi principi attivi sono contenuti in farmaci quali Seroxat, Zoloft, Seropram, Cipramil e Cipralex, tutti prodotti e distribuiti da due multinazionali del farmaco: GlaxoSmithKline e Lundbeck. In apparenza la Eli Lilly, produttrice del ben noto Prozac (Fluoxetina) e del meno noto Cymbalta (Duloxetina) sta subendo, negli ultimi anni, una certa concorrenza.
Nutro una completa diffidenza nei confronti delle droghe sintetiche ed assimilabili, così come non credo nelle capacità di psicologi e medici.
Quando mi sento dire, “perché non vai da un medico?”, “perché non ti fai dare una mano?”, capisco quanto sia facile essere catalogati come persone malate.
Se non ho voglia di ridere, se non credo che questo mondo assurdo abbia un futuro, se i telegiornali mi nauseano, devo per forza considerarmi un depresso? O meglio, devo pensare di aver contratto la depressione?
No grazie!

sabato 29 dicembre 2007

Rapito

Emilie Simon - Flowers

Emilie Simon - Emilie Simon (2003)

Questa ragazza mi ha rapito. I miei capelli stanno comme quelli di werewolf. Saltello anch'io, insieme alla bimba, in quell'allegro praticello con tante pietre.

venerdì 28 dicembre 2007

Cattivo

Anche questo Natale ce lo siamo tolto dai c……i”, così recitava un sms ricevuto due anni fa.
Il tempo passa, ed io non cambio, tutto rimane sempre così privo di significato, così insensatamente inutile.
Lo so, siete tutti più buoni.
Io non ci riesco.
Vi chiedo scusa.

domenica 23 dicembre 2007

Futuro





"We must not kill the planet, we would not know where to bury it ..."
Michel Granger.

sabato 22 dicembre 2007

Infinita tristezza

Mi accorgo di me, dopo qualche minuto. La testa ovattata, lontano dal mio corpo, quasi assente. Seduto, osservo la strada che sparisce e si rinnova, sempre li, davanti al cofano. Le note di platino aiutano l’anima ad immergersi nella realtà della mia esistenza, mi rendo conto di essere avvolto in una pesante ed insopportabile tristezza. Non mi capacito di riuscire a continuare senza cedere, senza mollare, mi ripeto che passerà, che cambierà e lascio fare al nulla che mi aspetta.
Parcheggio l’auto vicino alle aule che in passato ho frequentato, in questa città che uso come rifugio, come dolorosa dimora per questo mio vecchio cuore a pezzi. Mi incammino, a stomaco vuoto, verso il centro. Maledico l’autista di un autobus che sfreccia sulle strisce pedonali, lo faccio a voce alta, senza volerlo, e attiro l’attenzione di alcuni passanti. Proseguo alla ricerca di me stesso, senza rendermi conto che sono proprio li con me. Oggi, incrocio molta bella gente ed anch’io, vestito di tutto punto, mi sento un po’ bello, diciamo che una leggera bellezza malinconica ricopre il mio volto, oggi senza peli e con i capelli pettinati. La gente è dappertutto, esce dagli angoli per sparire dietro ad altri vicoli, sbuca dai portici e si muove in ogni direzione, da non crederci. Un signore con la pipa, lascia un ricordo nelle narici, ed io incespico su di un tombino, l’ho guardato bene, era diverso dagli altri, li stanno cambiando. Se guardi una cosa con attenzione finisci per inciamparci sopra, accidenti. Vivo questa giornata senza scopo, come l’intera mia vita e non riesco a maledirmi.
Mi ci vuole del tempo per trovare il libro che devo comprare, hanno cambiato l’ordine degli scaffali e dei reparti, questa libreria sta peggiorando, si sta vestendo di modernità. Un giovane si scontra con una commessa, non riescono a mettersi d’accordo su chi dei due debba portare il libro alla cassa. Io no, non ho la tessera, l’ho detto anche al benzinaio, non mi interessano i punti, non voglio avere tessere, premi, sconti, voglio solo pagare i libri ed uscire.
Mi fermo un attimo davanti ad una vetrina, una paio di scarpe settecento euro, ho sbagliato vetrina. Un mimo argentato, mi strizza l’occhio ed io non riesco nemmeno a salutarlo. Ancora bella gente incrocia il mio cammino, vorrei urlare la mia solitudine, ma lascio perdere ed entro nel secondo negozio. Vorrei acquistare “Strade perdute” di David Lynch, ma non lo trovo, porto alla cassa Oxygene new master recording ed assisto al piccolo show della giovane commessa. Mi coglie di sorpresa con il suo sorriso e le sue battute, cerco di nascondere il mio imbarazzo, ma credo di non esserne in grado. Mi saluta con sorrisoni e battutone, lascio il negozio incredulo.
Un altro mimo, questa volta dorato, tenta di fingersi immobile, ci riesce talmente bene, che non lo nota nessuno.
Non so cosa pensare di queste feste e dei prossimi varietà, so che non riuscirò a trascorrerle con serenità, so che anche quest’anno perderò un’altra possibilità.
A casa, mi siedo in silenzio, e mi lascio stare.
Sono triste. Domani, forse, non lo sarò più.

martedì 18 dicembre 2007

La mia pianta

Ho tolto la mia pianta dal poggiolo, l’ho messa in una formina per budino e l’ho sistemata fuori dalla porta d’ingresso.
Nell’angolo della porta, vicino al tappeto blu e nero, sembra un piccolo ciuffo verde privo di significato.
Ogni sera, quando rientro la trovo li, con la sua fierezza ed indifferenza e sorrido.
Sorrido ad una pianta; comincio a pensare a me stesso come ad un povero uomo.

domenica 16 dicembre 2007

Morto

Oggi è il giorno ideale per morire. Il cielo è appena velato da inconsistenti nuvole, la luce del sole irradia la sua presenza ovunque e l’aria è fresca, quasi fredda. I colori delle cose, che riempiono quello che c’è la fuori, sono prepotentemente vivaci. La mia pianta, abbandonata sul poggiolo, sembra gridarmi il suo dolore. Essere vivo, con limitate possibilità di mutare la sua condizione, subisce le conseguenze dell’indifferenza di un essere umano, forse meno vivo di lei. Incapace di accettare la bellezza dell’essere vivo, mai compresa fino in fondo, attendo con ansia la mia fine. So che non arriverà oggi, anche se oggi la sto aspettando come non l’ho mai aspettata prima.
Il mio cervello non mi lascia stare. Spinge il mio pensare da cose sensate a cose per niente pertinenti. Il sistema "cuèrti" attira la mia attenzione, impossibile dedurlo senza aver mai visto i martelletti incontrarsi sulla carta.
Io, nato per vivere da solo, non ne ho la forza. Ormai sono stanco anche di commiserarmi, senza un particolare motivo. Racchiuso nella parte più buia e nascosta, che anche tu ti porti dentro, non riesco e non voglio uscirne. Non voglio credere alle grandi illusioni confezionate, alle promesse di soddisfazione, alla realtà virtuale che ci viene continuamente offerta. So di non poterti incontrare, so che è meglio così, so di dover smettere di scriverti. Non serve a farci sentire vicini, serve a riempire quel che resta del cuore, di piccole ed inutili illusioni. Scriverò ancora, non so di cosa e non so perché, ma lo farò. Non avrò niente da dire, come niente ho detto fino ad ora.
Quello che c’è la fuori è tutto finto. Ho bisogno di qualcosa di vero.
Il vento bussa alla mia finestra, ma lascio stare sia lui sia la finestra e mi siedo sul divano. Ascolto il mio corpo, quei piccoli doloretti che scorrono lungo i muscoli e le giunzioni, il torace che segue la frequenza del respiro, il cuore che batte nelle orecchie. Sono carne, involucro di me, strumento meccanico vivo, contenitore di informazioni emozionali. Reagisco agli stimoli sensoriali, non sono ancora morto. Il corpo è vivo e sano, in buona salute. “Prima cosa la salute”. Appunto, da questa prima cosa devo partire. So di dover lavorare sulla salute della mia mente. Devo rendermi libero dai condizionamenti del passato, da quello che mi ha reso come sono. Devo riuscirci da solo.In questo luogo nero, come la mia esistenza, dove il bicchiere mezzo vuoto, lo è grazie alla fisica, mi interrogo sul mio futuro. Penso alla copertina di Oxygene, a quello che sta sotto, a quello che non è immagine, ma che rimane celato, custodito, perché fa paura, come il teschio, vuoto e severo che nascondi sotto alla tua carne. Penso a Memento: “Quando bacio il tuo labbro profumato, cara fanciulla non posso obliare che un bianco teschio vi è sotto nascosto. Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso, obliar non poss'io, cara fanciulla, che vi è sotto uno scheletro nascosto. E nell'orrenda visione assorto, dovunque o tocchi, o baci, o la man posi, sento sporger le fredde ossa di un morto”, poesia amica, di quest’uomo che non può fermarsi in superficie.
Se ce la farò, fra non molto, andrò ad immergermi nell’acqua. Acqua ricca di cloro, acqua che isola e che amplifica il dolore della mente, poi, con la forza di un cadavere ambulante tornerò alla mia dimora, lontano da tutto e senza alcuna speranza.
Non sono morto, ma oggi vorrei esserlo.

martedì 11 dicembre 2007

Troppo tardi

Wilson Pickett - It's too late (1963)



(Doo-doo-doo's)
It's too late (too late, too late)
Said it's too late, yes it is (too late)
My love is gone away to stay (too late)
Don't you know it's too late now
Listen, children, I wanna tell you this
It's too late to cry (too late to cry)
It's too late to cry now (too late to cry)
My love is gone away, yes she has (too late)
Wo wo (too late) she has (too late)

(spoken):
I just guess that you're wonderin' why I always sing a sad song
But you see, I had a woman who was very good to me & I can remember the times she used to sit down & tell me these words:
Said, "Pickett, I want you to know I love you from the bottom of my heart & whatever you need, I don't want you to go to your mother, your father, your sister or your brother I'll be a leadin' pull when you're fallin' down
When all your money's gone, I want you to know you can count on me" But I didn't appreciate that woman then
You know what? I had to run & chase after every little girl around town
So finally one day I got home & I found my little girl gone & people, you know it hurt me so bad (ha ha) I had to hang my little head & cry
Then I began to read the letter she left for me layin' there; it read like this, children

It's too late, she's gone, oh (she's gone)
"It's too late I'm gone away" (she's gone)
Ah yeah (too late) don't you know it, children (too late)
Yeah yeah yeah yeah yeah yeah
Say it one more time (too late) listen (too late)
I wanna hear you understand what I'm talkin' about (too late)

Fastidio

Due monete da due euro, questo gli ho dato. Potevo dargli di più, ma ho pensato che non mi sarebbe rimasta moneta, per la colazione di domani mattina. Gli ho detto di non raccontarmi storie, con quella faccia furba non gli crede nessuno. “Devo comprarmi una bombola”, ma fammi ridere, guardami bene e dimmi cosa te ne fai di una bombola. In me una sensazione di brutto gesto vorrebbe spingermi a rifare tutto, nessuna parola, una banconota e dritto in macchina. Ma è andata così. Questa sera, le notizie alla radio, mi hanno rallegrato. Questo paese, inutile, si sta accorgendo della sua debolezza, faccio il tifo per chi ha deciso di non far rotolare la gomma sull’asfalto. Attendo fiducioso la paralisi, pronto a godermela appieno. Detesto questa civiltà, forse al pari di quanto riesco a detestare me stesso. Io che non riesco ad uscirne, che dormirò sotto un piumone, e che a discrezione potrò ubriacarmi o andare a dormire a secco. Il fluido nero, mentre scrivo, vale 89,14 $/b, troppo poco per piegare le gambe a queste nazioni globalizzate, ancora troppo poco. Aspetto fiducioso, il futuro sarà scuro, molto scuro. Questa sera è molto difficile non accendere una diana blu, l’aria è buona, umida, non troppo fredda, con quel profumo di muffa, quanto facile sarebbe godere di quelle belle boccate. Sono nervoso, teso ed infastidito. Stanco di me, di questa mia testa, di questo mio volto, butto nel forno una pizza preconfezionata. La mia presenza in questa stanza mi mal dispone, chiedo a me stesso di lasciarmi solo, ma non mi do retta. Se vivessi con qualcuno, questa sera, litigherei di sicuro. Scrivo la mia rabbia per liberarmene, ma più scrivo e più monta, più sale. Allora bevo, respiro, penso, urlo sottovoce, ci sono i vicini, ascolto musica semplice e muovo le dita sulla tastiera. Non serve scrivere, non serve a niente. Lo faccio, continuo a farlo, non serve. Sono stanco di prendermi in giro, sono stanco di darmi fastidio. Perdonati, perché non ti perdoni? Accettati, perché non ti accetti? Vedrai che passa. Spero mi passi sopra, e non una volta sola. Socrate, Santippe ed Alcibiade, nel loro allegro triangolo, non mi sono d’aiuto. Comincio a credere non serva a nulla leggere gli antichi pensieri. Questa rabbia, questo fastidio mi allontanano dall’aria che respiro. Domani la protesta prosegue, il precettare si è rivelato essere una leggerissima aria di ventre, emessa in una stalla ricolma di mucche con la dissenteria, poco significante, per non dire del tutto trascurabile. Evviva le mucche.

sabato 8 dicembre 2007

Forse

Scrivere la vita non è cosa facile, riesce più facile leggerla. La mia sembra un viaggio in treno, uno di quelli che facevo da ragazzo, non per scelta, per lo meno non mia, ma quasi per abitudine. Viaggio con data di scadenza.
Non ne hai voglia di partire, quest’anno non ne hai voglia, ma come l’anno scorso, prepari la valigia, percepisci il disagio, la nostalgia dell’arrivederci, di quell’essere umano che lasci per incontrarne un altro, che a sua volta lascerai per tornare al punto di partenza. Una sorta di ciclo, che ti vede ogni volta diverso, ma senza che tu te ne renda conto. Parti con la tristezza nel cuore, che ancora ti sembra vivo, perché lo senti, perché ti chiede di fermarti, ma tu non puoi e allora non lo ascolti. Parti e guardi dal finestrino, il verde, sempre uguale, ma diverso ogni volta, le case, i palazzi e i prati, quanti prati, ma saranno prati? Non lo so, l’erba non sembra molto in forma, forse è tutto morto, e quei campi coltivati, li vicino alle rotaie, non produrranno certo cibo, non lo credi possibile. Chi mangerebbe del pane con farina cresciuta ai piedi dell’autostrada? Chi? Fumi qualche sigaretta, ti senti grande, stai viaggiando da solo, sono più di cinquecento chilometri, sei veramente un ometto. Ma sei triste, e non ti sai spiegare il perché. Forse perché sai che quando aprirai la valigia, il tempo non si fermerà e non potrai buttarla via, perché dovrai fare ritorno. Ma da dove sei partito non lo ricordi più, non sai se torni quando sei qui o se parti da qui per tornare li, non lo sai. La cosa che sai è che dovrai partire nuovamente. Non appartieni a nessun luogo.
E’ così che ti ritrovi solo, dopo molti anni, intrappolato su quel treno a guardare fuori senza riuscire a vedere nulla. Non sai nemmeno se il treno si sta muovendo, se è giorno o notte. Non fumi da quasi tre mesi, ma in mano hai una bottiglia. Scrivi perché nessuno scriverà di te, e di te non potrai leggere nessuno scritto. Scrivi perché sei triste, scrivi perché hai paura. Scrivi perché essere soli fa paura. Domani sarai li, all’uscita dell’autostrada, domani non sarai solo. Sarai spaventato, senza forze e molto triste, ma non lo darai a vedere. Fingerai serenità.
Domani, forse, sarai sereno veramente, senza fingere. Forse.

martedì 4 dicembre 2007

Lonely Land

Landberk - Lonely Land (1992)

Sento

Sento l’acqua scorrere in gola, fresca, con il suo solito sapore.
Sento il sangue fluire in me, lo sento così vicino, come se io fossi presente in ogni tessuto, in ogni vena.
Sento la tensione, accumulata con il passare delle ore, la giornata finisce, lei non se ne va.
Sento il dolore, in queste mie ormai vecchie ossa.
Sento l’aria poggiare le sue mani sul mio volto.
Sento le note di questa canzone, così sciocca.
Sento l’odio che cresce, mai ho odiato più di quanto non stia odiando me stesso.
Sento la disperazione, crescere, espandersi, invadere ogni mia cellula.
Sento le grida che vorrei urlare, ma non ho voce, questa sera non ce l’ho.
Sento la tua voce, che da molto tempo non mi parla più.
Sento il tuo respiro, che più non ruba il mio spazio.
Sento la fronte poggiarsi sui miei palmi.
Sento il sapore di quello che non ho assaggiato.
Sento il rumore di cristalli di neve, che non cadranno più su questo mio corpo.
Sento il peso di questa mia condanna.
Sento di essere vivo.
Sento e non vorrei.

domenica 2 dicembre 2007

Grigio

Guardo dalla finestra. Quello che vedo non è bello, ma allo stesso tempo, comunque io la voglia mettere, non è nemmeno brutto. Il tempo è grigio, impossibile negarlo. Io sono grigio, e quel cielo freddo ha riempito il mio corpo sin da quando ho aperto gli occhi. Penso a “The Weather Man”, scritto da Steve Conrad, l’ho guardato molte volte, quasi sempre in lingua originale e quasi sempre mi è entrato dentro, come oggi ha fatto il cielo. E’ lento, calmo, grigio e triste. Non conosco molta gente, l’unico giudizio che ho avuto, è stato quello del tizio che gestisce il noleggio di DVD in questa simpatica cittadina veneta “un brutto film”. Ascolto la colonna sonora e vorrei piangere. Lacrime adulte, lacrime di vergogna, non di dolore. Mi vergogno di me. Mai avrei potuto immaginarmi così. Come un automa, fra poco uscirò da questa casa, non di certo da questo stato d’animo. Un paio d’ore e sarò di ritorno. Aspirapolvere, piatti da lavare e un po’ di panni da stendere. Poi nuovamente il nulla, fino alla maschera di domani mattina. Una nuova settimana di lavoro, una nuova settimana di niente.

sabato 1 dicembre 2007

Novemila

Precedo la cameriera, ho scelto l’ultimo tavolo d’angolo, vicino alla finestra. Lei si ferma al tavolo prima, mi giro, la guardo e mi siedo. Ha vinto lei. Questo ristorante lo conosco, anche se non da molto, e non provo quella sensazione di disagio che proverei se fosse un luogo sconosciuto. Appoggio il cellulare sul tavolo, lo metto a lato, sulla sinistra, dietro la bottiglia d’olio. Nessuno chiamerà, a meno che al lavoro non accada qualcosa che non dovrebbe. Sul volto, i soliti peli incolti, che mai riusciranno a farsi chiamare barba, ed in testa qualcosa di simile ad un gomitolo deforme di capelli, folti e privi di direzione. Arrotolo le maniche della camicia e leggo il menù. Durante l’attesa che mi separa dalle tagliatelle ai funghi, il locale si riempie. Entra un vario campionario del genere umano e si distribuisce in coppie, tris e poker. Li guardo tutti e non provo nulla. Solo qualche mese fa, avrei provato qualcosa, magari un piccolo fastidio, un pizzico di invidia, oggi non riesco nemmeno a crederli vivi. Mi sembrano attori di celluloide che popolano la mia sceneggiatura, per renderla ancora meno sensata di quello che è. La cameriera, con il volto quasi squamato da un’abbronzatura grigia, trascina la sua tristezza e scrive tutto. Qualche volta sorride. Ogni sorriso è una smorfia di dolore, sembra quasi un cadavere. Mi colpisce il maglioncino del tizio che mi siede davanti, color rosso, con una pezza bianca sulla schiena, tanto grande quanto la stessa schiena, con al centro, in nero, questo insieme di lettere “Nederland 003885”. Esco dal locale, mentre il pomeriggio comincia, e spero che venga presto sera. In piedi, vicino all’auto, senza alcuno scopo, mi faccio schifo. Mille voci affollano la mia testa, chiama qualcuno, chiedi aiuto, telefona … cazzo … non c’è nessuno a cui telefonare, un cazzo di nessuno … chiaro? … si è chiaro, lo so, stai calmo, respira. Salgo in macchina e guido. Dove devo andare? Da nessuna parte. Dovrei fare la spesa, comprare Oxygene di JMJ in DVD, comprarmi un vestito, camicia, cravatta e scarpe, andare al cinema, farmi il passaporto. Non riesco a fare nulla di più che guidare, fino a sera, fino al buio. Con il buio, solo con lui, riesco a bere. In frigo, non c’è nessuna birra, lo so. Devo per forza entrare in un supermercato. Parcheggio e prendo il carrello. Tante belle luci, tutto molto pulito, nuovo e finto. Come ci siamo ridotti, abituati ad entrare in enormi saloni, pieni di scaffali ricolmi di ogni cosa, allunghiamo la mano e soddisfiamo desideri che non abbiamo. Chi vuoi che si possa inventare il desiderio di mangiare il carcioghiotto? Metto nel carrello due peperoni, uno giallo e uno rosso. Sono impressionanti, sembrano finti, sembrano colorati con i pennarelli “carioca”, li ricordi? Quante cose ci ho colorato? I peperoni, però, non ricordo di averli colorati. Aggiungo due zucchine, del radicchio trevisano, quello amaro, pomodorini pachino e qualche Clementina. Raggiungo lo scaffale, quello giusto, con soddisfazione, ma subito cado in depressione, niente “Bière du démon” 12%. Allora cerco, controllo la gradazione alcolica e opto, come prima scelta, per la “Tennent’s Super” 9%, a seguire la “Ceres Stout” 7,7%. Spingo il carrello e proseguo gli acquisti, una signora si arrabbia perché rifiuto due yogurt in omaggio. “Due litri di latte, due yogurt in omaggio”, no grazie, non li mangio, già mi scadono quelli che compro io, si figuri quelli che non scelgo “Ma sono in omaggio” signora mia, lei dovrebbe capire che se l’omaggio non è gradito, non è gradito, vuole che li prenda e li lasci fuori dalla porta? Sarebbe più contenta così? Coraggio signora, ritorni in lei, una volta ci deve essere stato qualcuno la dentro. Il mondo ci sta scappando dalle mani e noi non ce ne accorgiamo. Alla cassa lo show continua. La cassiera chiede alla cliente di leggerle il codice dell’acqua minerale parzialmente frizzante, ma non troppo, la cliente comincia “atre2bnovemilac…”, la cassiera la interrompe “novemila con quanti zeri?”. Novemila con quanti zeri? Ma cosa sta succedendo? Aiuto! Presto, fate qualcosa! Esco sconsolato, veramente molto, e risalgo in macchina. Può avere un futuro questo mondo? Dimmelo tu, se te la senti.

mercoledì 28 novembre 2007

Paracetamolo

Guardo la confezione e non ricordo. La rigiro fra le mani, ma non ricordo. Compresse da 500 mg esclusi gli eccipienti. Contiene tre blister da dieci compresse, in uno dei tre ne mancano quattro. Tra gli effetti indesiderati mi colpiscono, le vertigini, lo shock anafilattico e soprattutto la sindrome di Stevens Johnson. Quest’ultima, nei casi più gravi, presenta un tasso di mortalità compreso nell’intervallo (5% - 25%). Lo so, stiamo parlando di un semplice antipiretico, ma il fatto di non ricordare mi lascia perplesso. Sulla tovaglia briciole del giorno prima, le posate e qualche resto di cibo, nessun indizio. Il bicchiere è quasi vuoto, rimane poca acqua minerale naturale. Non ricordo di aver bevuto alcolici, oggi, ne sono praticamente certo. Dunque, dovrei essere in grado di rispondere ad una semplice domanda. “L’ho già presa la compressa, questa sera?” Non ricordo. Non ricordo quello che, al massimo, è successo dieci minuti fa. Lo so che non è grave, ma rimango li seduto, a rigirare la confezione fra le mani.
C’è di peggio. Questa notte, in sogno, ho ucciso due amici di gioventù, e mia nonna, morta ormai da tempo, mi spiegava come fare per non farmi beccare.
Comincio a farmi paura.

domenica 25 novembre 2007

Il posto mio

Il posto mio
(A. Testa, T. Renis - 1968)
Vorrei vedere un altro al posto mio
non so se lui farebbe quello che faccio io
sono lo scendiletto su cui cammini tu
cammini a piedi nudi fin da quando
ti svegli al mattino
sto qui come uno specchio a dirti che
esisti sulla terra solo tu
tu leggi nei miei occhi tutta la fedelta'
di un cane che ubbidisce solo a te
io sono quello che ti da' ragione
anche se hai torto marcio solo perche' sei tu
per me che t'amo tanto sei giusta come sei
ti so capire in tutto perche' vivo soltanto di te
vorrei vedere un altro al posto mio
ma no non ne parliamo il posto e' mio
anzi ti chiedo scusa mi son sfogato un po'
sai già che al posto mio io restero'
(Renzo Arbore e i suoi Swing Maniacs)
(2005)

sabato 24 novembre 2007

Nessuna meta

Mi sveglio. Oggi non devo alzarmi. Pochi secondi e comprendo che non è stato un sogno, in questa mia vita è stato tutto fin troppo vero. Il buio che mi avvolge comincia da subito a nausearmi, senza un motivo, spalanco le imposte e torno a sdraiarmi sotto al piumone. Non ho nessuna voglia di affrontare questa giornata, perché questa giornata è cominciata male. Lo sento nell’aria, nella pesante presenza di questa mia solitudine, così nauseabonda e fastidiosa. Guardo il cielo, grigio e stufo, e lascio che questa luce stanca entri nei miei occhi cadenti. Cerco qualcuno o qualcosa al mio fianco, ma niente è mai presente vicino a me. Sospiro e rantolo, come un vecchio senza forze, consumando un po’ di questa giornata orrenda, nell’attesa di trovare un motivo che mi faccia alzare. Questa casa, la migliore da anni, meriterebbe un inquilino migliore, qualcuno meno morto di me. Con un odio dentro, così forte da soffocarmi, mi trascino verso una poco probabile colazione. Ieri sera, ho noleggiato un DVD, poi mi sono addormentato sul divano e l’ho lasciato girare invano. Lo guardo adesso.
Non so come farò a proseguire questa giornata, così pesante ed insopportabile, comincio a temere di non riuscire a trovare la forza necessaria per continuare a sperare. Lavo i piatti e metto apposto, nel limite delle mie possibilità. Mi vesto ed esco. Nessuna meta, come sempre. Nessuno da incontrare, come sempre. Mi rifiuto di andare a fare la spesa, non ne ho il coraggio, muovermi fra gli scaffali, ricolmi di cibo, potrebbe essermi fatale. L’aria è appiccicosa, a tratti disgustosa. La macchina si muove regolarmente e mi porta in una delle tante città venete. Non ho l’ombrello, piove copiosamente. Scendo dalla macchina e m’incammino verso nessuna meta. La pioggia comincia a penetrare nelle scarpe, nei pantaloni e lungo il collo. Cammino assente da me, come non mi era mai successo. So di essere vivo, ma non riesco a capire fino a che punto.
Prendo in mano un CD e cerco di leggere i titoli che lo compongono, quando alcune gocce bagnano mano e copertina, mi rendo conto di essere completamente lavato. Passo una mano fra i capelli, ma la fermo subito, c’è così tanta acqua che rischierei di far affogare le persone che mi circondano, meglio tenermela in testa. Forse questa volta riuscirò ad ammalarmi, un bel febbrone da cavallo, qualcosa di pesante, qualche mese di mutua. Compro un po’ di musica, che si rivelerà, in seguito, una schifezza, ed esco per riprendere il colloquio con l’acqua del cielo.
Mi infilo in un ristorante, senza capirne il motivo, e seguo la cameriera che mi lascia ad una tavolo con una smorfia di circostanza. Mi siedo, ordino ed aspetto. Se qualcuno mi chiedesse cosa vuol dire solitudine, gli risponderei “pronunciare le prime parole della giornata alle 19:30 – tagliatelle agli eremitani – ad un cameriere che non rivedrai più”.
Il desiderio di fumare è enorme, ma la mia apatia è tale da impedirmi anche solo di immaginarmi mentre mi accendo una sigaretta. Salgo in macchina e guido verso casa. Mi ritrovo bloccato in un ingorgo. Da qualche parte, qui vicino, questa sera si terrà un concerto.
Ti prego, regina delle cartomanti, leggimi il destino, dimmi che non mi resta più molto da vivere, salvami, tu che puoi, da questo mio orrendo futuro.
Entro in casa, senza voglia di continuare, e stappo la prima bottiglia. Questa sera voglio bermi anche l’anima. Caro massimo, vai a fare in culo.

giovedì 22 novembre 2007

Questa sera

Questa sera, ritorno a farmi un po’ di compagnia. Sono stanco del male che continuo a farmi, e pur sapendo di non poter smettere realmente, cerco di dimenticarmene almeno per un momento. Non credo di poter curare la mia solitudine scrivendo i mie pensieri attraverso una tastiera.
Ci ho provato.
Continuerò a farlo, nello stesso modo o in maniera differente, ma non questa sera.
Stanco di me e del mio modo di vedere le cose, confesso l’evidenza di aver compreso che non serve a nulla pretendere di poter condividere noi stessi con altre persone. Non era per niente importante che la persona che cercava in me solo una piccola cosa, non restituisse ai mie occhi la comprensione del mio essere complicato. Non molto avrei dovuto restituirle, un abbraccio caldo e forte, una carezza e poche domande, semplici, ma vere, magari anche uguali a quelle del giorno precedente.
Temere le conseguenze di scelte non fatte, solo perché altri, molto vicini a te, le stanno ancora pagando, porta a quello che sono. La procreazione come generazione di dolore è pensiero di persona debole e forse troppo piccola per difenderne il contenuto.
“She can kill you with her smile”, lei può ucciderti con un sorriso. Questo vorrei provare. Ma non funziona così.
Oggi ha piovuto. Tante parole sono state scritte sulle gocce dal cielo, ne ho scritte anch’io nel passato, ma oggi la pioggia ha fatto una cosa molto semplice, mi ha bagnato. La coda in autostrada, in compagnia di un collega, di ritorno da una trasferta, non è stata niente di più. I due panini per pranzo e le parole scambiate, non hanno cambiato il destino del mondo. Le notizie alla radio non mi hanno infastidito.
Questa sera, ascolto la mia voce senza pretese.
Questa sera, accetto le tue critiche.
Questa sera, mi siedo accanto a me e mi tengo un po’ di compagnia.

domenica 18 novembre 2007

Settimane

Stappo la prima bottiglia, fresca, secca, ruvida, scende lasciando il segno. I primi sorsi vengono sempre seguiti da smorfie di sopportabile fastidio. Sono bei momenti, ha inizio la quiete. La settimana, per me, finisce il sabato sera, buttato via nel cestino. Niente che valga la pena fare fuori casa. I muscoli e i nervi chiedono di restare in santa pace. Perché poi, la pace debba essere santa? I santi sono quasi tutti martiri, che il martirio sia sinonimo di pace?
Le settimane passano senza lasciare traccia e con gran difficoltà distinguo in quale periodo mi trovo. Il calendario m’indica che ormai siamo oltre la seconda metà dell’undicesimo mese. Un altro anno scivolato via, perso in momenti senza ricordo, in fatti senza importanza. Come fare a non pensare a Battiato? A “come ho speso male il mio tempo, che non tornerà, non ritornerà più.” Questi enormi lenzuoli, sui quali ho solo poggiato i piedi, come grandi fogli di un gigantesco calendario, senza capirci nulla. Dove mi sono lasciato andare? Quando ho mollato?
Questo fiume, che continuo a vedere nei miei ricordi, in mezzo a montagne che tanto del mio dolore custodiscono, mi chiama senza voce. La voglia di salire in macchina e di guidare per oltre cento chilometri, che mi separano da questo ricordo, è molto debole. Ricordo di luoghi che mi hanno visto solo di passaggio, ricordo ricorrente e paranoico.
Se la gioia di vivere mi ha tenuto compagnia, io non me ne sono accorto, ma le sono grato comunque.
Ricordi della città dei miei studi alti, di una parete inclinata, la facciata di una chiesa. Le sigarette fumate, mentre correvo tra aule e collegio, con lo sgabello sotto il braccio e gli occhi a seguire linee regolari fra i porfidi. Il primo semestre, il migliore. Buio e freddo, pieno di nebbia e silenzi, odiato con tutto me stesso e adesso quasi gradevole, prezioso ricordo, del mio essere stato nulla anche allora.
Verso questo liquido nello stomaco e riempio le mie orecchie con note d’ogni genere. La voce di Fish fa male, ma io non lo sento più. “Tu stai male, perché a te piace stare male.” Così, quella che è stata la mia vita per dodici anni, liquidava la nostra prima settimana.
“…when I look into your eyes, I don’t know what to say to you…” eggià, non l’ho mai saputo, come si fa a dire quello che non può essere ascoltato?
Hai mai fatto caso come l’arpeggio di chitarra sia in grado di aprirti i recettori delle emozioni? Io lo sto subendo ora, in questo momento, ed è piacevole, come una puntura sulle tempie.
“Posso lasciarti un omaggino simpatico?”, così la mia barista preferita, quella sempre incazzata, mi ha spiazzato tre mattine fa. Non riuscivo a crederci, donna tutta di un pezzo, seria e severa, mi sorride e mi dona un portachiavi made in china, gadget pubblicitario inutile, ma in grado di lasciarmi senza punti fermi. Non è più incazzata, non è più lei. Cosa le sarà saltato in mente?
Altre parole raggiungono le mie orecchie, ed altri ricordi affiorano. Se non vivi la tua vita, non ti resta che ricordarla. Anni trascorsi lungo la pedemontana, muffa sui muri, riscaldamento spento per risparmiare, niente mobili. Quelle grosse lumache, senza guscio, che calpestavo quando uscivo, distratto, a sbattere la tovaglia. Caro il mio passato mal speso, potrai mai perdonarmi? Ti ho odiato quando eri presente, ti preferisco ora che sei lontano.
Gli addobbi per il grande “varietà religioso”, mi hanno quasi nauseato, dovevo solo comprarmi la cena, cose da single, non ero certo pronto a subire quella violenza di colori e luci, a novembre, ma come siamo ridotti?
Vorrei poter dormire, ancora una volta, in quella casa sopra la stazione. Fammi un regalo, solo per questa notte, fammi addormentare lungo quella ferrovia piemontese, tu puoi riuscirci, ho bevuto abbastanza, non sarà difficile.
Ciao.

venerdì 16 novembre 2007

Buio

L’asfalto nero e scuro scorre sotto le ruote gommate di questa scatola. Questa scatola che, ogni sera, mi riporta da dove sono partito. Non si può distinguere il cielo buio e privo di colore, da tutto quello che vi dorme sotto. E’ buio ed è tardi.
La mente si muove da sola, inseguendo pensieri che non portano da nessuna parte. Paura del buio. Non ho paura del buio, quello che posso vedere con gli occhi, quello delle stanze che compongono la casa in cui abito, nemmeno di quello delle stanze che non conosco. Non ho paura del buio, ho smesso anni fa. Temo, però, il buio che si annida in me, in luoghi che non vorrei contenere, in forme che non vorrei sentire, in modi che non vorrei conoscere. Mi chiedo se potrò mai comprenderlo, mi chiedo se sia vero o se sia solo una mia percezione distorta della realtà, che filtra attraverso la mia storia, attraverso il mio passato, iniziato nella culla e cresciuto assieme a me.
Sono in ritardo, mi sto aspettando da troppo tempo e non riesco in nessun modo a raggiungermi. Aspetto di potermi parlare sul serio, di potermi perdonare, di stringermi la mano e, con una pacca sulla spalla, indicarmi la strada da seguire. Aspetto da tempo ormai.
In queste condizioni raggiungo casa.
Apro il frigo, ci guardo dentro, e mi intristisco. Non che prima io fossi felice, è solo che quello che i miei occhi vedono aumenta di un po’ la tristezza, che già mi tiene compagnia. Mi riesce difficile ammettere di essere riuscito ad ottenere quello che volevo, per poi rendermi conto che non volevo nulla. Una casa vuota, non mia, un frigo vuoto, non mio, una vita vuota, non mia.
Capisco di non poter proseguire, per questa sera credo possa bastare.
Perdonami.
why are you running away? …

lunedì 12 novembre 2007

Ieri

Parcheggio il mio carro piccolo, in un parcheggio a pagamento, nel quale i posti sono stati tracciati da un idealista, privo di senso pratico. Dieci manovre e tre carrozzerie rovinate, ogni volta che qualcuno entra od esce da questo claustrofobico luogo. L’unico suo vantaggio è l’essere situato a cinquanta metri dal centro. Non ho con me, né maglione, né giacca, dovevo andare a nuotare, qui io non dovevo venirci. Scendo in maniche di camicia e prelevo alcuni dei miei euro da un distributore bancomat, “digiti il codice senza farsi osservare”, deve essere uno scherzo.
Le vie del centro sono piene di gente, coppiette, bambini, famiglie, nonni e nipoti, comunitari e non, tutti in movimento, tutti in apparenza vivi. Mi muovo cercando di non dare nell’occhio e m’infilo in un noto negozio di CD ed affini. Cerco fra le novità e rimando l’acquisto di Vecchioni senza capirne il motivo. “Mi scusi lei lavora qui?” No signora, mi dispiace. Povera signora, non ha tutti i torti, non potrò mica essere un cliente così imbecille da girare in camicia, quando tutti indossano voluminosi giacconi e paltò colorati. Quando non voglio dare nell’occhio, ci riesco sempre.
Mi dirigo verso un altrettanto noto negozio di libri. Lungo il tragitto, non posso fare a meno di notare la coppia che mi viene incontro, lei sfoggia le sue grazie con estrema scioltezza, tanto da farmi pensare che, o non fa così freddo come sembra, oppure si è anestetizzata l’armamentario. Non dovrei far caso a queste cose, ma la carne è debole, anche se la mia la pensavo imbalsamata da tempo. Sarà.
Un tango per fisarmonica e tromba, che spettacolo. Che sia questo il motivo per il quale mi trovo qui? Ma che motivo vado cercando, non c’è mai stato nessun motivo per nessuna situazione, sono figlio del caos, una semplice variabile aleatoria. Rido di me, con soddisfazione, e accenno qualche passo danzante. All’interno, mi dirigo spedito alla ricerca di qualche novità sull’oro nero, ma nulla di nuovo è stato pubblicato. La corsa si è fermata a 98,6 $/b, dovrò aspettare ancora per festeggiare la fine di questa nostra caotica ed inutile civiltà, ma rimango fiducioso. Vado alla cassa con ‘Elementi’ e ‘La lunga notte del dottor Galvan’. “Ha la tessera?” No grazie. No grazie? Ma che risposta ho dato?
Un giocoliere lancia in aria palle colorate, le immagino restare sospese, catturate da un campo antigravitazionale, ma quando toccano terra ricordo il concetto di forza peso, vettore dotato di direzione e verso. Verso il basso, come il mio sguardo, che sia colpa della lettera “g”?
Sbaglio strada tre volte, il mondo si sta riempiendo di rotonde, e alla fine torno a casa.
Leggo e faccio gli homeworks, passo l'aspirapolvere e lavo i piatti.
Scriverò domani.
Ma questo è accaduto ieri.

domenica 11 novembre 2007

Monotonia

Bevo a canna “La Biere Du Demon”, 12 gradi di salute alcolica. La settimana si è chiusa con una piena giornata di lavoro, e senza alcuna voglia di abbandonarmi fra le braccia di Morfeo, combatto con la stanchezza, cercando di tenere gli occhi aperti. Occhi criccati, con spaccature rosse a demolire lo sfondo bianco, occhi impolverati, occhi bassi e maledettamente stufi. Bevo a canna e scrivo, non lo faccio in silenzio, ma ascoltando un brano suggeritomi giorni fa, in continuazione, come mi capita spesso, “Give a man Home”. Ogni tanto, la mia voce esce spontanea ad inseguire il coro, aggrappata ai vapori etilici; è tardi, non posso esagerare, vivo in un condominio, qui c’è gente seria. Dio del sonno, lascia che io spenda ancora un po' del mio tempo in compagnia di Dionisio, non strapparmi da questo limbo, lascia che io ne scriva, rubando tempo che non è mio ad occhi che non conosco. Lascia che io possa raccontare il mio essere uguale a me stesso, che io possa confessare la mia debolezza, la mia incapacità di cambiare. Versami da bere, non nel bicchiere, ma direttamente in me, riempi questo corpo di torpore e lascialo sospeso, ne sveglio, né sognante, qui tra il prima e il dopo, tra il niente e il tutto. E’ questa la mia vita, polvere e briciole a terra, piatti da lavare nel tinello e spazzatura da portare fuori. In ginocchio sulla sedia, di fronte al video, luci spente, volume basso, uomo inutile. Inutile a se stesso e ancor di più al genere umano, vita sprecata, equalizzata da sentimenti non compresi, da ignoranza emotiva. Dio della disperazione, respingi questo imbecille, percuotine le carni, richiamalo alla realtà. Se ci sei, lasciami respirare, sospeso in questa non dimensione, in questo ballo fluttuante nel nulla. Se non puoi darmi tregua, concedimi ancora poche righe, poche lettere, lascia che io possa raccontare la mia costante monotonia, la mia insana capacità di non cambiare, di non mutare. Dannato io sia, e tutto quello che mi verrà incontro. Zicar non tentarmi, non offrirmi quello di cui adesso avrei bisogno, non lo fare, lasciami solo, con quest’inebriante liquido ricco d’ossidrili. Rido con lacrime vere, rido di me, e ne sono capace, in maniera sincera e naturale. Rido di un uomo ubriaco, dell’inferno che mi aspetta e del fuoco che arrostirà la mia carne per l’eternità. Vieni adesso, ti aspetto, sono pronto a venderti l’anima, non m’importa il prezzo, comprala, fanne quello che vuoi, ma vieni subito, prima che io cambi idea, Ade sono qui. La tua birra non cancella la monotonia della mia esistenza, non strappa da me il dolore di una vita sprecata, di un egoismo schifoso e prepotente, di una solitudine crescente, senza limiti ne confini. Vivo questi minuti d’esistenza senza chiedere nulla, lascio scorrere questo nettare e lo aspetto, con gioia, a rallentare e distorcere le sinapsi. Bevi, idiota, bevi, non fermarti, è questo il miglior momento della tua giornata, assaporane la deformazione, l’incapacità sensoriale, il venir meno della ragione. Cambia note, cambia nenia, non cedere al dolore, fronteggialo. Come puoi, tu che leggi, tornare su queste pagine? Fammi capire, com’è possibile? Se potessi condividere con te quello che sto vivendo, quello che mi sta uccidendo, ma non posso, le regole del gioco non le decido io. Non andartene, non lasciarmi qui, aspetta ancora un po’, ho quasi finito. Ascolta la mia atonalità, la mia non diversità, la mia monotonia.
Perdona quello che non sono riuscito a restituirti, e concedimi un’altra possibilità, cercherò di migliorare.
Questa notte, posso solo sistemare le note, su di una sola riga, a creare un perfetto esempio di monotonia.
L’ultimo sorso è il nostro brindisi e la nostra buona notte. Dormi bene.

venerdì 9 novembre 2007

Buco nell'acqua

Mi allontano da me stesso, lo faccio approfittando della mia stessa distrazione. Rendo deboli i miei sensi, più di quanto non lo siano già. Peggioro la vista togliendomi gli occhiali, abbassando la luce e aspettando la sera, quando la grigia patina della giornata si è ispessita, fino a rallentare il battito delle palpebre. Congelo le dita per ridurne la sensibilità annullandone le capacità tattili. Elimino fonti di rumore ed odore, chiudendo porte e finestre, tappando aperture e feritoie.
Cerco di capire cosa resti di me, senza stimoli dall’esterno, senza distrazioni sensoriali, solo con il mio cervello, solo con il mio contenuto. Mi guardo da lontano, da diverse prospettive, dall’alto e dal basso, da sinistra e da destra e non riesco a capire quel che vedo. Non guardo con gli occhi e forse non sto nemmeno guardando, ma quello che percepisco non mi piace. Vorrei farlo vedere anche a te, che porti i tuoi occhi su queste parole, vorrei osservare la smorfia sul tuo volto, vorrei confrontare i nostri punti di vista. Lo vedi anche tu l’egoismo? Provi anche tu questo fastidio?
Lascia stare, non badarmi, sto sprecando il nostro tempo. Sto cercando, ancora una volta, di fare un buco nell’acqua.

domenica 4 novembre 2007

Tappeto di foglie

Esco di casa, senza alcuna meta, con il motivo che mi ha spinto ad uscire stretto nelle mani, la spazzatura. Lasciata la mia produzione settimanale nel cassonetto, mi dirigo verso nessun luogo. Il silenzio domenicale mi fa stare tranquillo e il cielo, azzurro sbiadito, rende sopportabile questo mio camminare. Un cinese con i baffi, mentre guarda dentro ad un’auto, fuma nervosamente, avrà dei problemi anche lui. Sulla vetrina di un’agenzia di viaggi, un cartello rosa, circondato da cuoricini, recita “è nata Tania”, penso che dovrei scusarmi con questa neonata per non essere riuscito, in nessun modo, a migliorare questo mondo schifoso. Fallimento totale, su tutti i fronti. Mi ritrovo presto a camminare sul ciglio di una strada molto trafficata, senza marciapiede, non ho capito come ci sono arrivato, ma ormai non posso far altro che proseguire. Fa caldo, mi tolgo il maglione, nel taschino della camicia trovo il biglietto del cinema, fila J, posto 14, sabato 3 novembre, dimentico molto velocemente quello che mi accade. Raggiungo un canale, che scorre fra strada e pista ciclabile. Decido essere meglio schivare biciclette piuttosto che auto. Non sono l’unico e mi ritrovo presto in una processione, di cani, anziani, bambini, biciclette, donne, coppiette ed idioti come me, non molti a dire la verità, in tutta onestà, oltre a me, nessun altro idiota. Vengo superato da un piccolo di uomo che sfreccia sulla sua piccola bicicletta, inseguito dal padre urlante, che lo implora di fermarsi, arrancando su di una bicicletta reale. Più avanti, un altro padre accarezza il figlio addormentato sul seggiolino, ancorato al retro della sua bicicletta. Lasciata la pista ciclabile, mi infilo in stradine poco battute, passando davanti a svariati cancelli, posti a protezione di giardini privati fronte villetta. Un cane mi abbaia contro tutta la sua frustrazione e viene prontamente ripreso dal suo padrone “luna no, ho detto no, luna”, gran bel nome da dare ad un cane, davvero bello. Su di una panchina, in un giardinetto pubblico, due giovani si baciano, una fitta al petto, dove una volta cera il cuore, mi spinge ad accelerare. Ci sono già passato, poi deve essere successo qualcosa, qualcosa che non ho capito, paura, egoismo, imbecillità, e passi dal bacio su di una panchina ad una passeggiata, da solo, trascinando la tua esistenza. Riprendo il controllo e mi rendo conto, solo adesso, che sto camminando su di un tappeto di foglie morte. Bianche, gialle ed arancioni, secche e morbide, ricoprono l’asfalto, nascondendo le mie tracce.
E’ un caldo autunno, io continuo a camminare.

Respiro

Riempio i polmoni di aria, un grande respiro, inspiro ed espiro dal naso. Niente nicotina, monossido di carbonio e benzopirene, non fumo da più di un mese, ma nulla è cambiato. Sento i polmoni gonfiarsi e sgonfiarsi, mentre fanno entrare ed uscire aria rubata a questa stanza. Aria tiepida, riscaldata artificialmente, aria polverosa di mobili velati. Respiro, sempre più profondamente, ma nulla cambia. Il cuore pompa il sangue ricco di ossigeno, ma nulla cambia. Allora spalanco una finestra, lascio entrare l’aria fredda e umida. Inspiro con il naso, riempio il torace, ma nulla cambia. L’aria è sporca, drogata, pesante, respiro la sua disgustosa composizione e nulla cambia. Esco di casa, sbatto la porta alle mie spalle e scendo le scale. Odore di cibo filtra da altre porte, affretto il passo e spalanco il portone, sono fuori. Inspiro tutta l’aria che posso, espiro ed inspiro, più volte, ma nulla cambia. Allora mi muovo, vado a destra e poi a sinistra, vado dove mi portano le gambe, senza guardare, senza pensare, senza alcuno scopo. Respiro, sempre più affannosamente e nulla cambia. Sono circondato dall’aria, fra i capelli, tra pelle e vestiti, appoggiata agli occhi, nelle orecchie, respiro, ma non cambia. I passi si fanno sempre più veloci, non vedo quello che ho davanti, non faccio caso alle poche persone che incontro, respiro, sempre più in fretta, senza sosta, non cambia. Mi ritrovo a camminare su erba marcia, circondato da alcuni alberi, vecchi e intossicati, un animale volante emette un suono già sentito, respiro, niente da fare, non cambia. Mi fermo, sudato e rigido, piego la schiena verso il basso, appoggio le mani sulle gambe e respiro, sempre più lentamente, senza pensare, dimenticando, lasciando stare tutto come sta. Non ci faccio più caso, respiro senza farci caso e mi calmo. Senza farci più caso. Quante volte l’ho sentito dire “non farci caso”, quante volte ci ho provato e quante ci sono riuscito. Anestetico, calmante, antidolorifico, tutto racchiuso in una frase, tutto fingendo di non essere dotato di sensi, tutto cercando di non ascoltarli. Resto qui, piegato a testa in giù, respiro, ma non me ne accorgo. La mia anima, oggi, ha smesso di farlo.

giovedì 1 novembre 2007

Cellophane

E’ cominciato dal basso, lentamente, giorno dopo giorno, con un sottile formicolio ad un piede. Un processo innaturale, fuori dal mio controllo e dalla mia consapevolezza. La pelle non respira più, le cellule cambiano colore e, se ci fai attenzione, puoi accorgerti della mancanza di una piccola porzione di te. Ma non ho fatto attenzione, e ho proseguito la mia strada con indifferenza. La cosa è andata avanti, prima l’altro piede, poi la gamba fino a sopra il ginocchio e a seguire l’altra gamba. Sempre più stretto, sempre più aderente, questo strato artificiale, ha costruito una barriera, una veste, una seconda pelle. La carne, con i pori otturati, non scambia nulla con l’ambiente e comincia a marcire. La puzza resta isolata, e nessuno si è mai accorto di niente, nessuno ha mai visto la carne marcia che riveste le mie gambe. Le articolazioni fanno male, ma il dolore è sopportabile e l’ho dimenticato con il tempo. Senza alcuna intenzione di fermarsi, questo polimero trasparente è salito fino all’ombelico, stringendo l’addome come una panciera perfetta. Così è cominciato il dolore attorno ai reni, sottile e costante. Con il corpo così conciato, ho continuato a proseguire, senza voltarmi, senza cercare forbici, senza alcuna intenzione di tagliare quello che stava isolando il mio involucro dal resto. Con oltre la metà del corpo priva di sensibilità, la vita mi è risultata più facile. Posso urtare contro qualsiasi cosa e niente è in grado di procurarmi un dolore più grande, di quello che già sto gustando. Con il tempo, ho quasi finto che non esistesse questo strato di carne artificiale, sopportando i dolori al petto e alle spalle, senza lasciarmi scoraggiare.
Questa mattina, davanti allo specchio, senza la maschera (quella la lascio in macchina), ho visto il mio volto putrefatto e piagato, sotto questo film trasparente, che nulla lascia libero, ed ho capito di essermi sbagliato. Ho sbagliato a non tagliare questo film, quando, con le mani ancora libere, avrei potuto farlo, ho sbagliato a non chiedere di farlo a qualcun altro, quando le mie mani non ne erano in grado, ho sbagliato a fingere che il dolore non sarebbe aumentato, ho sbagliato.
Ma gli errori si pagano, e senza lamentarmi più di tanto, ho lasciato la mia immagine riflessa nello specchio assieme a questi miei pensieri, per proseguire la strada che ho davanti. So che mi porterà ad una fine, che in cuor mio spero vicina, sicuramente meno inutile di quanto non sia il mio tempo, speso calpestando questa terra.
Oggi è una giornata gioiosa, che io l’abbia in gloria.
E' solo idrato di cellulosa.

Notte delle streghe

E’ l’ora di mezzo, quella in cui il sole appare nel suo punto più alto. Ho lasciato il carro gommato fra linee blu, non ho monetine, non posso farci niente. Devo consegnare una provetta. Cammino velocemente con questa busta in mano, nelle orecchie musica calma, colonna sonora sbagliata. Le onde elettromagnetiche visibili riscaldano il mio volto, io cerco altri volti, voglio capire chi gira per il centro a quest’ora. Tanti volti, tutti molto veloci, nessun sorriso. Due signore, con camice bianco, mi invitano a salire al terzo piano. Qui trovo il primo sorriso, di circostanza, e le lascio la busta con la provetta. Mentre scendo le scale, immagino che la provetta si sia svuotata durante il tragitto, cosa poco probabile, ma in linea con le mie fobie. Di ritorno, sorrido di me, mentre mi sforzo di tenere la testa alta.
Non si vede più il sole, molte ore sono passate, quando esco da un luogo inutile. Nelle orecchie riecheggia un suono, un suono ricco di ricordi, di sere passate con rabbia, senza consapevolezza, lontano dalla vita, molti anni fa. E’ il suono di piccole esplosioni, esplosioni allo zolfo, che riempiono le narici di freddi ricordi. Vorrei fermarmi, non andare avanti, lasciare la strada ormai segnata ed aspettare qualcuno, qualcosa di nuovo.
Domani sono libero, riposo, senza impegni. Questa notte posso non dormire, questa notte posso sognare. La voce dal passato, con quel tono e quell’indifferenza, mi riempie di un nuovo futuro, aiutandomi a tracciare una nuova strada.
E’ la notte delle streghe, sto per vomitare.

domenica 28 ottobre 2007

Alla prossima

Ciao, come va?
Eh, ho avuto dei problemi.
Cosa è successo?
Mi sono fatto ricoverare.
Quando?
Non ricordo, mi sembra martedì.
Cosa hai avuto?
Ma, mi sono misurato la pressione, 200 – 120, ho chiamato il medico e mi ha suggerito di chiamare il 118. Quando sono arrivati mi hanno portato in ospedale.
Quando sei uscito?
Venerdì.
Cosa ti hanno detto?
Ma, di smettere di fumare. Poi, mi hanno cambiato qualche pastiglia. Le solite belinate.
Adesso come stai?
Eh, come sto? Mi sono preso paura, ma tanto lo so, ormai faccio la fine della nonna.
Lo so. Smettere di fumare non se ne parla.
E come faccio? Lo sai che non ci riesco.
Lo so, si.
Quando mi chiedono se fumo, e gli rispondo di si, gli viene voglia di mandarmi a casa. Sono dottorini di trent'anni, che si guardano e pensano “Questo qui cosa vuole? Farci perdere del tempo?”
Immagino. Lo penserei anch'io al loro posto.
Eh, si, non hanno mica tempo da perdere, loro.
Lo so.
Quando sono arrivato, hanno letto le carte del dottore “infartuato, by-passato, prostatato, semidiabetico, colesterolo alto” gli ho detto “anche mezzo rincoglionito”. Mi hanno messo su un lettino e hanno cercato un posto dove sistemarmi. Non sanno mai dove metterti. L’ospedale è sempre pieno, ti parcheggiano in doppia fila. Aspettano che si liberi la cantina o che muoia qualcuno.
Incredibile.
Hanno mandato un’infermiera di primo pelo, non parlava neanche bene l’italiano, ha chiesto scusa perché non era molto pratica. Per togliermi il sangue, mi ha mezzo assassinato un braccio. Mi è andata bene, quello prima di me, lo ha quasi ucciso.
Vi usano come cavie.
Eh si. Poi mi hanno parcheggiato in uno sgabuzzino. Spostano un letto e ce ne infilano un altro, ti mettono sopra la testa di uno, ti girano da una parte, poi finisci al terzo piano. Siamo passati anche da un’officina, non so un belin.
E’ dura.
Preparati per il funerale. Te le danno le ferie, se muoio?
Si che me le danno.
Ti spettano di diritto. Anche se si rompe una macchina o se avete qualche problema in fabbrica?
Certo, non scherzare.
Volevo venirti a trovare, ma adesso non lo so se ce la faccio.
Cerca di stare tranquillo e riposati.
Mi compro una pipa o dei sigari.
Così non mandi giù il fumo.
Si, così dicono.
Ma, hai ridotto le sigarette?
Si, mezzo pacchetto invece di uno.
Quanto resisterai?
Fino a quando mi passa la paura.
Al solito.
Si.
Va beh dai.
Ci sentiamo la prossima settimana. Se muoio te lo faccio sapere.
OK. Grazie, alla prossima.
Ciao …….
Ciao papà.

giovedì 25 ottobre 2007

Debole

Guardo la strada e fatico a vederla, è buio e la cosa mi tranquillizza. Un’altra giornata gettata alle spalle sta per finire. Guido lentamente verso casa e mi ritrovo in uno stato di dormiveglia per niente rassicurante. Sono sobrio, niente fumi alcolici, ma la fatica si fa sentire, gli occhi mezzi chiusi non fanno il loro dovere. Le luci delle auto, che mi corrono incontro, si sgranano in rombi dilatati dai mille lampi, la musica “A posteriori” mi ipnotizza con queste note dalla calma solo presunta. Devo stare sveglio, ma non ne ho voglia. Abbasso il riscaldamento, guardo la realtà attraverso il parabrezza e mi impongo di crederle. La strada mi è ormai nota, uguale a se stessa, ogni sera ed ogni mattina, la strada dell’allegria. “Quale allegria?” cantava Dalla. E si, proprio, quale allegria? Non c’è niente da scherzare, se non riesco a stare sveglio mi schianto contro un muro o al più finisco in un fosso. Coraggio, caro mio, fatti coraggio. Penso alla cena e cado nella più totale depressione, sbagliato pensiero, per niente stupendo. Pizza al taglio e risolvo brillantemente. Fingo di crederci e fermo l’auto a poche decine di metri dall’Arte Della Pizza. All’interno una persona squisita, come sempre, mi sorride e incarta le mie scelte. Al contrario della mia barista preferita, sempre incavolata, questa commessa è sempre serena. Le due si sposano perfettamente con i momenti che le vedono protagoniste. Al mattino sono come la barista e alla sera come la pizzaiola. Riprendo l’auto e rispondo ad una telefonata di lavoro, inutile come la mia giornata. Salgo le scale e non me ne accorgo. Non mi accorgo di quello che mi circonda, non mi accorgo nemmeno di me stesso. In casa, la solita calda accoglienza mi ricorda i miei errori e la mia grande vittoria libertà e indipendenza. Gran bell’idiota. Mi cambio infilandomi una tuta enorme, non mi so nemmeno comprare una tuta. Consumo la mia cena, con estrema gioia e gaiezza, evviva. Perché ho questa grande paura di morire da solo? Infondo non è un problema, soli o accompagnati tutto avrà fine. Questa sera sono debole, molto debole. Vorrei schiaffeggiarmi, ma temo che finirei per non capirne il motivo. Tu che mi leggi puoi fare qualcosa? Certo che no, si fa per dire.
Mi fermo e godo di questa debolezza, con le note di Capossela che raccontano la mia Pena dell’anima.

http://www.youtube.com/watch?v=lvLW2F8iJpQ
… se il meglio è già venuto, e non ho saputo, tenerlo dentro me …

martedì 23 ottobre 2007

Nebbia

Una delle mie poche amiche, mi avvolge e mi protegge. Con il suo odore di muffa profumata, di muschio marcio, nasconde i contorni, mantenendo le forme. In lei mi muovo sicuro, in lei nessun occhio può vedermi, nessun occhio può decifrarmi. Sfiora la mia pelle con il suo tocco umido e riempie la mia anima di quiete fredda ed immobile. Gli alberi piangono quando ascoltano la sua voce ed i muri, vecchi e sporchi, di palazzi cadenti, trasudano la loro patina di gas di scarico. L’eco dei miei passi bui risuona smorzato dalla sua presenza. In lei tutto rallenta, i lampioni si piegano nell’ombra, gli insetti escono dalle loro tane, topi e rane danzano sicuri. Io respiro la sua essenza muovendomi senza meta. In lei lascio le mie tracce assenti, senza vita, senza senso.
Chiudo gli occhi e ricordo il passato, nella città degli studi, all’alba di ogni sabato, camminavo con le borse in mano. Ritorno a casa, avvolto nel grigio della sua presenza. Presenza così forte da mettere radici. Radici profonde che la rendono amica.
Oggi guardo oltre il vetro e l’aspetto, impaziente di correrle incontro.

domenica 21 ottobre 2007

Idiozie

Vorrei saltare su di un carro ferroviario in corsa. Un carro bestiame vuoto e puzzolente, con la paglia impregnata da liquami e rifiuti animali. Un carro senza porta, con le pareti in legno. Vorrei sedermi in un angolo e viaggiare tutta la notte. Una notte senza fine, una notte eterna. Nessuna stella in cielo, solo un satellite rotondo e giallo. L’aria fredda e veloce a straziarmi il viso e le assi di legno a piagare il mio corpo. Un viaggio gelido, solitario e bagnato. Bagnato da una pioggia incessante, da una pioggia che filtrando dal soffitto, non mi lasci tregua, bagnando ogni centimetro del mio corpo, impregnando tutto quello che ho addosso, rendendolo pesante, freddo e puzzolente. Nessuna fermata, nessuna stazione, nessuna città da attraversare, solo due binari infiniti e persi nel buio. Vorrei ascoltare il rumore del ferro che scorre sul ferro, più forte del rumore dei miei denti tremanti, più forte del rumore del sangue che cade a terra dalla mia bocca. Vorrei urlare a questa notte, vorrei urlare in questo viaggio, vorrei alzarmi in piedi ed avvicinarmi al bordo del carro, guardare fuori, guardare il nulla attraversato da questo treno. Vorrei guardare quella palla gialla, che sorride di me, disgustata dal mio fetore di uomo bagnato e freddo, e con un filo di voce “mandarla, anch’io, a fare in culo”.
Con un sorriso disgustoso sul volto, penso a quante volte quell’inutile ammasso di rocce, orbitante attorno al nostro pianeta blu, abbia dovuto ascoltare idiozie come queste.

giovedì 18 ottobre 2007

niente titolo

Mi sveglio di colpo e mi ritrovo in questo locale. Seduto ad un tavolo, il numero quattro, sono circondato da altri tavoli, quasi tutti occupati da gente che non riesco a vedere. Sul piano di legno ho poggiato gli occhiali, vicino alla bibita americana, e nelle orecchie mi arrivano delle note di un pessimo drum & bass . Mi chiedo come ho fatto a prendere sonno e da quanto tempo sono seduto qui. Aspetto, guardando senza vedere quello che mi circonda, che accada qualcosa. Volti e nuche sfocati, parole distorte ed incomprensibili, sorrisi inutili, non mi aiutano a stare sveglio. In alto, due tubi catodici diffondono immagini musicali senza alcuna attinenza con quello che le orecchie ascoltano. Con la testa fra le mani intuisco l’arrivo di ciò che ho ordinato, la giovane cameriera appoggia sul tavolo i listelli di tubero fritti e del pane ripieno di porco e cipolla. Inforco gli occhiali e consumo la mia cena.
Gli occhi riescono a sopportare la luce della notte ed io riesco a raggiungere l’ingresso del mio rifugio. Senza alcun motivo apparente, in testa mi risuona una frase “non riesco ad immaginare il tuo volto”, la cosa però non mi preoccupa, ho spento la mia mente, ieri sera, ed ho cercato di svuotare alcuni contenitori interni. In casa ascolto “Do you love me?”, di Nick Cave, cercando di riprodurre con il corpo i passi sincopati della danza contenuta nel video. Non sono mai riuscito a ballare, ma muovermi come un’idiota mi riesce molto bene. Questa sera non sono ubriaco e la cosa non è bella. Uomo libero e solo rido di me, cantando questa canzone che mi ha ormai rapito e che difficilmente lascerò nei prossimi giorni.
Vorrei poterti dire addio.

http://www.youtube.com/watch?v=lOiUPl5GjTE

domenica 14 ottobre 2007

Stanco

E’ il giorno del Signore. Ho lasciato la compagnia forzata di due miei colleghi e seduto nel carro mobile sto percorrendo una strada. Ogni muscolo, ogni tendine, tutto il mio scheletro, disegnano un mosaico nervoso di piccoli dolori. Dolori leggeri, pungenti e costanti, percorrono il mio corpo in accordi privi d’armonia. Da più di una settimana non ceno e solo la piccolissima colazione di questa mattina mi permette di restare cosciente. La strada va dalle grandi industrie alla città dotta, ed io sto cercando un luogo dove acquistare qualcosa per nutrirmi. Alla mia sinistra, un corso d’acqua, tutt'altro che promettente, riesce, inspiegabilmente, ad intrattenere diversi esseri umani con una canna in mano, intenti a pescare animali d’acqua quasi certamente in putrefazione. Mi auguro, per loro, che non gli venga in mente di mangiare il frutto di quel loro insensato passare il tempo. Attraversando cittadine nate lungo la strada, quasi prive di piazza, incontro alcuni volti, intenti a ripetere gesti meccanicamente, come esseri caricati a molla, trascinando il loro vivere con incoscienza. Io penso alle loro vite ed alla mia vita, alla monotonia di quei gesti, al perdersi di quei passi sull’asfalto invecchiato. Vedo quei mattoni e quelle pietre, assemblati in abitazioni dall’intonaco cadente, molto simili alle stanze che popolano la mia, sempre più vecchia, anima. Vecchia e stanca, oggi, come il mio corpo che implora cibo e pace, che implora un contatto, che implora ciò che non ha da molto tempo, un po’ d’attenzione. Sul volto, pochi peli incolti, disegnano una barba multicolore, gli occhi scavati da questa vita sempre più pesante, cercano l’orizzonte filtrando le immagini attraverso lenti sorrette solo dalle stanghette.
Sono stanco, dentro e fuori. Consapevole che questa mezza giornata di nulla non sarà sufficiente a ritemprare le mie articolazioni, cerco di cancellare ogni desiderio, di dimenticare ogni illusione, perché lo dice la voce che ricanta nelle mie orecchie l’illusione è il lusso della gioventù. A casa preparo il cibo e accendo la macchina lava panni.
Ora, le mie dita scrivono la mia stanchezza, scrivono per te che mi leggi, ma soprattutto scrivono per me, essere stanco di sperare e affaticato da questo continuo sopravvivere.
Le dita si fermano.
Sono stanco.

venerdì 12 ottobre 2007

Ricorderò

La stanza aveva la forma della lettera L, un po’ più tozza, ma non di molto. All’interno tre scrivanie di legno scuro e vetusto, due sotto alle finestre e la terza più indietro ai piedi di uno dei letti. L’armadio, incassato nel muro, conteneva pochi vestiti, in alcuni casi nessuno, se non qualche cambio di biancheria pulita. Seduto come ogni sera, uguale alla precedente, leggevo di campi magnetici ed elettrici, leggevo di matematica che cammina, di onde che interagiscono con materia rivelando la loro duale natura. Più avanti, sulla sinistra, posata su qualcosa di simile ad un comodino, la radio aspettava di essere accesa. Girando la sua manopola, cercavo qualche nota amica. Fu il suono di una chitarra distorta e compressa, che con calma disegnava arpeggi e cantato, a fermare la mia mano. Rimasi lì in piedi, rapito, come accade raramente, ad ascoltare quelle note, poi raggiunte da parole narranti un viaggiare eterno, il desiderio di tornare, l’impossibilità di farlo e poi ancora quel suono compresso e distorto. Non ho più ritrovato quelle note e, quasi dimenticate, le ho tenute, da qualche parte, all’interno del mio vuoto.
Pochi giorni fa, quelle note si sono risvegliate e con forza mi hanno spinto a cercarle, a trovarle e a suonarle. Questa sera, ho capito perché. Nessun ricordo, fino a qualche giorno fa, era legato a quelle note, ma adesso in quel nido di rose ai piedi dell’arcobaleno, ci ho messo un regalo. Un regalo ricevuto con sorpresa, da chi forse non conoscerò mai, ma che ho già incontrato. Che ho incontrato quella sera, in quella stanza. Una malinconia diversa, una malinconia che non si può raccontare, ma si può scrivere e si può leggere.
Oggi so di chi era quella malinconia. Oggi so che quelle note porteranno sempre con loro quest’anima sconosciuta, ma così vicina, quel suo “qualcosa” e la mia incredulità. So che non potrò più ascoltarle senza pensare ad un volto mai visto, ad una bicicletta e all’odore di un maglione di lana. Ascolterò e ti ricorderò, ovunque saremo, qualunque cosa ci sarà successa, lontani come ora, lontani come sempre.
Ascolterò e ti ricorderò.

martedì 9 ottobre 2007

Giornata di suicidio … pensando a Ben Sanderson

Tratto dal film Leaving Las Vegas (1995), scritto e diretto da Mike Figgis, con Nicolas Cage ed Elisabeth Shue. Il brano musicale “Lonely Teardrops” è di Berry Gordy interpretato da Michael McDonald.

Ben Sanderson, an alcoholic Hollywood screenwriter who lost everything because of his drinking, arrives in Las Vegas to drink himself to death.

Molte volte ho pensato al suicidio, quante volte ne ho parlato, sin da giovane adolescente, rabbioso e schifato di tutte le menzogne che riempiono questo nostro mondo. Quante volte, con quelli che un tempo furono amici, ho cercato di immaginare come sarebbe stato porre fine alla propria esistenza. E quanto è stato difficile ammettere che in nessun modo sarei mai riuscito a tagliare il filo vitale, il desiderio biologico, inscritto nelle istruzioni primordiali, di continuare a bruciare ossigeno e trasformare materia, di continuare ad esistere.
Oggi, dopo aver gettato via tutto il poco di buono che mi è stato concesso, le cose sono diverse. Sono diverse perché ho scoperto che è possibile vincere gli ostacoli che ci legano alla nostra esistenza. Sono diverse perché ho incontrato Ben Sanderson.
La prima volta che l’ho incontrato non ci ho fatto caso, ero distratto nel trascinare il mio vivere lungo le strade della mia insensata esistenza. In seguito, incontratolo nuovamente, ho capito la forza della sua scelta, la possibilità di poter realizzare quello che pensavo impossibile e tutto è cambiato.
Da allora, so che la cosa è possibile, so che non devo preoccuparmi e che l’unica cosa di cui avrò bisogno la sto guadagnando giorno dopo giorno.
Prenderò i mie risparmi, li investirò in alcool e me li berrò tutti fino alla fine. Niente più ostacoli biologici, niente più freni morali, tutto sopito da vapori di alcool senza fine. Fino alla fine.
Oggi è una giornata di suicidio e di …