domenica 28 ottobre 2007

Alla prossima

Ciao, come va?
Eh, ho avuto dei problemi.
Cosa è successo?
Mi sono fatto ricoverare.
Quando?
Non ricordo, mi sembra martedì.
Cosa hai avuto?
Ma, mi sono misurato la pressione, 200 – 120, ho chiamato il medico e mi ha suggerito di chiamare il 118. Quando sono arrivati mi hanno portato in ospedale.
Quando sei uscito?
Venerdì.
Cosa ti hanno detto?
Ma, di smettere di fumare. Poi, mi hanno cambiato qualche pastiglia. Le solite belinate.
Adesso come stai?
Eh, come sto? Mi sono preso paura, ma tanto lo so, ormai faccio la fine della nonna.
Lo so. Smettere di fumare non se ne parla.
E come faccio? Lo sai che non ci riesco.
Lo so, si.
Quando mi chiedono se fumo, e gli rispondo di si, gli viene voglia di mandarmi a casa. Sono dottorini di trent'anni, che si guardano e pensano “Questo qui cosa vuole? Farci perdere del tempo?”
Immagino. Lo penserei anch'io al loro posto.
Eh, si, non hanno mica tempo da perdere, loro.
Lo so.
Quando sono arrivato, hanno letto le carte del dottore “infartuato, by-passato, prostatato, semidiabetico, colesterolo alto” gli ho detto “anche mezzo rincoglionito”. Mi hanno messo su un lettino e hanno cercato un posto dove sistemarmi. Non sanno mai dove metterti. L’ospedale è sempre pieno, ti parcheggiano in doppia fila. Aspettano che si liberi la cantina o che muoia qualcuno.
Incredibile.
Hanno mandato un’infermiera di primo pelo, non parlava neanche bene l’italiano, ha chiesto scusa perché non era molto pratica. Per togliermi il sangue, mi ha mezzo assassinato un braccio. Mi è andata bene, quello prima di me, lo ha quasi ucciso.
Vi usano come cavie.
Eh si. Poi mi hanno parcheggiato in uno sgabuzzino. Spostano un letto e ce ne infilano un altro, ti mettono sopra la testa di uno, ti girano da una parte, poi finisci al terzo piano. Siamo passati anche da un’officina, non so un belin.
E’ dura.
Preparati per il funerale. Te le danno le ferie, se muoio?
Si che me le danno.
Ti spettano di diritto. Anche se si rompe una macchina o se avete qualche problema in fabbrica?
Certo, non scherzare.
Volevo venirti a trovare, ma adesso non lo so se ce la faccio.
Cerca di stare tranquillo e riposati.
Mi compro una pipa o dei sigari.
Così non mandi giù il fumo.
Si, così dicono.
Ma, hai ridotto le sigarette?
Si, mezzo pacchetto invece di uno.
Quanto resisterai?
Fino a quando mi passa la paura.
Al solito.
Si.
Va beh dai.
Ci sentiamo la prossima settimana. Se muoio te lo faccio sapere.
OK. Grazie, alla prossima.
Ciao …….
Ciao papà.

giovedì 25 ottobre 2007

Debole

Guardo la strada e fatico a vederla, è buio e la cosa mi tranquillizza. Un’altra giornata gettata alle spalle sta per finire. Guido lentamente verso casa e mi ritrovo in uno stato di dormiveglia per niente rassicurante. Sono sobrio, niente fumi alcolici, ma la fatica si fa sentire, gli occhi mezzi chiusi non fanno il loro dovere. Le luci delle auto, che mi corrono incontro, si sgranano in rombi dilatati dai mille lampi, la musica “A posteriori” mi ipnotizza con queste note dalla calma solo presunta. Devo stare sveglio, ma non ne ho voglia. Abbasso il riscaldamento, guardo la realtà attraverso il parabrezza e mi impongo di crederle. La strada mi è ormai nota, uguale a se stessa, ogni sera ed ogni mattina, la strada dell’allegria. “Quale allegria?” cantava Dalla. E si, proprio, quale allegria? Non c’è niente da scherzare, se non riesco a stare sveglio mi schianto contro un muro o al più finisco in un fosso. Coraggio, caro mio, fatti coraggio. Penso alla cena e cado nella più totale depressione, sbagliato pensiero, per niente stupendo. Pizza al taglio e risolvo brillantemente. Fingo di crederci e fermo l’auto a poche decine di metri dall’Arte Della Pizza. All’interno una persona squisita, come sempre, mi sorride e incarta le mie scelte. Al contrario della mia barista preferita, sempre incavolata, questa commessa è sempre serena. Le due si sposano perfettamente con i momenti che le vedono protagoniste. Al mattino sono come la barista e alla sera come la pizzaiola. Riprendo l’auto e rispondo ad una telefonata di lavoro, inutile come la mia giornata. Salgo le scale e non me ne accorgo. Non mi accorgo di quello che mi circonda, non mi accorgo nemmeno di me stesso. In casa, la solita calda accoglienza mi ricorda i miei errori e la mia grande vittoria libertà e indipendenza. Gran bell’idiota. Mi cambio infilandomi una tuta enorme, non mi so nemmeno comprare una tuta. Consumo la mia cena, con estrema gioia e gaiezza, evviva. Perché ho questa grande paura di morire da solo? Infondo non è un problema, soli o accompagnati tutto avrà fine. Questa sera sono debole, molto debole. Vorrei schiaffeggiarmi, ma temo che finirei per non capirne il motivo. Tu che mi leggi puoi fare qualcosa? Certo che no, si fa per dire.
Mi fermo e godo di questa debolezza, con le note di Capossela che raccontano la mia Pena dell’anima.

http://www.youtube.com/watch?v=lvLW2F8iJpQ
… se il meglio è già venuto, e non ho saputo, tenerlo dentro me …

martedì 23 ottobre 2007

Nebbia

Una delle mie poche amiche, mi avvolge e mi protegge. Con il suo odore di muffa profumata, di muschio marcio, nasconde i contorni, mantenendo le forme. In lei mi muovo sicuro, in lei nessun occhio può vedermi, nessun occhio può decifrarmi. Sfiora la mia pelle con il suo tocco umido e riempie la mia anima di quiete fredda ed immobile. Gli alberi piangono quando ascoltano la sua voce ed i muri, vecchi e sporchi, di palazzi cadenti, trasudano la loro patina di gas di scarico. L’eco dei miei passi bui risuona smorzato dalla sua presenza. In lei tutto rallenta, i lampioni si piegano nell’ombra, gli insetti escono dalle loro tane, topi e rane danzano sicuri. Io respiro la sua essenza muovendomi senza meta. In lei lascio le mie tracce assenti, senza vita, senza senso.
Chiudo gli occhi e ricordo il passato, nella città degli studi, all’alba di ogni sabato, camminavo con le borse in mano. Ritorno a casa, avvolto nel grigio della sua presenza. Presenza così forte da mettere radici. Radici profonde che la rendono amica.
Oggi guardo oltre il vetro e l’aspetto, impaziente di correrle incontro.

domenica 21 ottobre 2007

Idiozie

Vorrei saltare su di un carro ferroviario in corsa. Un carro bestiame vuoto e puzzolente, con la paglia impregnata da liquami e rifiuti animali. Un carro senza porta, con le pareti in legno. Vorrei sedermi in un angolo e viaggiare tutta la notte. Una notte senza fine, una notte eterna. Nessuna stella in cielo, solo un satellite rotondo e giallo. L’aria fredda e veloce a straziarmi il viso e le assi di legno a piagare il mio corpo. Un viaggio gelido, solitario e bagnato. Bagnato da una pioggia incessante, da una pioggia che filtrando dal soffitto, non mi lasci tregua, bagnando ogni centimetro del mio corpo, impregnando tutto quello che ho addosso, rendendolo pesante, freddo e puzzolente. Nessuna fermata, nessuna stazione, nessuna città da attraversare, solo due binari infiniti e persi nel buio. Vorrei ascoltare il rumore del ferro che scorre sul ferro, più forte del rumore dei miei denti tremanti, più forte del rumore del sangue che cade a terra dalla mia bocca. Vorrei urlare a questa notte, vorrei urlare in questo viaggio, vorrei alzarmi in piedi ed avvicinarmi al bordo del carro, guardare fuori, guardare il nulla attraversato da questo treno. Vorrei guardare quella palla gialla, che sorride di me, disgustata dal mio fetore di uomo bagnato e freddo, e con un filo di voce “mandarla, anch’io, a fare in culo”.
Con un sorriso disgustoso sul volto, penso a quante volte quell’inutile ammasso di rocce, orbitante attorno al nostro pianeta blu, abbia dovuto ascoltare idiozie come queste.

giovedì 18 ottobre 2007

niente titolo

Mi sveglio di colpo e mi ritrovo in questo locale. Seduto ad un tavolo, il numero quattro, sono circondato da altri tavoli, quasi tutti occupati da gente che non riesco a vedere. Sul piano di legno ho poggiato gli occhiali, vicino alla bibita americana, e nelle orecchie mi arrivano delle note di un pessimo drum & bass . Mi chiedo come ho fatto a prendere sonno e da quanto tempo sono seduto qui. Aspetto, guardando senza vedere quello che mi circonda, che accada qualcosa. Volti e nuche sfocati, parole distorte ed incomprensibili, sorrisi inutili, non mi aiutano a stare sveglio. In alto, due tubi catodici diffondono immagini musicali senza alcuna attinenza con quello che le orecchie ascoltano. Con la testa fra le mani intuisco l’arrivo di ciò che ho ordinato, la giovane cameriera appoggia sul tavolo i listelli di tubero fritti e del pane ripieno di porco e cipolla. Inforco gli occhiali e consumo la mia cena.
Gli occhi riescono a sopportare la luce della notte ed io riesco a raggiungere l’ingresso del mio rifugio. Senza alcun motivo apparente, in testa mi risuona una frase “non riesco ad immaginare il tuo volto”, la cosa però non mi preoccupa, ho spento la mia mente, ieri sera, ed ho cercato di svuotare alcuni contenitori interni. In casa ascolto “Do you love me?”, di Nick Cave, cercando di riprodurre con il corpo i passi sincopati della danza contenuta nel video. Non sono mai riuscito a ballare, ma muovermi come un’idiota mi riesce molto bene. Questa sera non sono ubriaco e la cosa non è bella. Uomo libero e solo rido di me, cantando questa canzone che mi ha ormai rapito e che difficilmente lascerò nei prossimi giorni.
Vorrei poterti dire addio.

http://www.youtube.com/watch?v=lOiUPl5GjTE

domenica 14 ottobre 2007

Stanco

E’ il giorno del Signore. Ho lasciato la compagnia forzata di due miei colleghi e seduto nel carro mobile sto percorrendo una strada. Ogni muscolo, ogni tendine, tutto il mio scheletro, disegnano un mosaico nervoso di piccoli dolori. Dolori leggeri, pungenti e costanti, percorrono il mio corpo in accordi privi d’armonia. Da più di una settimana non ceno e solo la piccolissima colazione di questa mattina mi permette di restare cosciente. La strada va dalle grandi industrie alla città dotta, ed io sto cercando un luogo dove acquistare qualcosa per nutrirmi. Alla mia sinistra, un corso d’acqua, tutt'altro che promettente, riesce, inspiegabilmente, ad intrattenere diversi esseri umani con una canna in mano, intenti a pescare animali d’acqua quasi certamente in putrefazione. Mi auguro, per loro, che non gli venga in mente di mangiare il frutto di quel loro insensato passare il tempo. Attraversando cittadine nate lungo la strada, quasi prive di piazza, incontro alcuni volti, intenti a ripetere gesti meccanicamente, come esseri caricati a molla, trascinando il loro vivere con incoscienza. Io penso alle loro vite ed alla mia vita, alla monotonia di quei gesti, al perdersi di quei passi sull’asfalto invecchiato. Vedo quei mattoni e quelle pietre, assemblati in abitazioni dall’intonaco cadente, molto simili alle stanze che popolano la mia, sempre più vecchia, anima. Vecchia e stanca, oggi, come il mio corpo che implora cibo e pace, che implora un contatto, che implora ciò che non ha da molto tempo, un po’ d’attenzione. Sul volto, pochi peli incolti, disegnano una barba multicolore, gli occhi scavati da questa vita sempre più pesante, cercano l’orizzonte filtrando le immagini attraverso lenti sorrette solo dalle stanghette.
Sono stanco, dentro e fuori. Consapevole che questa mezza giornata di nulla non sarà sufficiente a ritemprare le mie articolazioni, cerco di cancellare ogni desiderio, di dimenticare ogni illusione, perché lo dice la voce che ricanta nelle mie orecchie l’illusione è il lusso della gioventù. A casa preparo il cibo e accendo la macchina lava panni.
Ora, le mie dita scrivono la mia stanchezza, scrivono per te che mi leggi, ma soprattutto scrivono per me, essere stanco di sperare e affaticato da questo continuo sopravvivere.
Le dita si fermano.
Sono stanco.

venerdì 12 ottobre 2007

Ricorderò

La stanza aveva la forma della lettera L, un po’ più tozza, ma non di molto. All’interno tre scrivanie di legno scuro e vetusto, due sotto alle finestre e la terza più indietro ai piedi di uno dei letti. L’armadio, incassato nel muro, conteneva pochi vestiti, in alcuni casi nessuno, se non qualche cambio di biancheria pulita. Seduto come ogni sera, uguale alla precedente, leggevo di campi magnetici ed elettrici, leggevo di matematica che cammina, di onde che interagiscono con materia rivelando la loro duale natura. Più avanti, sulla sinistra, posata su qualcosa di simile ad un comodino, la radio aspettava di essere accesa. Girando la sua manopola, cercavo qualche nota amica. Fu il suono di una chitarra distorta e compressa, che con calma disegnava arpeggi e cantato, a fermare la mia mano. Rimasi lì in piedi, rapito, come accade raramente, ad ascoltare quelle note, poi raggiunte da parole narranti un viaggiare eterno, il desiderio di tornare, l’impossibilità di farlo e poi ancora quel suono compresso e distorto. Non ho più ritrovato quelle note e, quasi dimenticate, le ho tenute, da qualche parte, all’interno del mio vuoto.
Pochi giorni fa, quelle note si sono risvegliate e con forza mi hanno spinto a cercarle, a trovarle e a suonarle. Questa sera, ho capito perché. Nessun ricordo, fino a qualche giorno fa, era legato a quelle note, ma adesso in quel nido di rose ai piedi dell’arcobaleno, ci ho messo un regalo. Un regalo ricevuto con sorpresa, da chi forse non conoscerò mai, ma che ho già incontrato. Che ho incontrato quella sera, in quella stanza. Una malinconia diversa, una malinconia che non si può raccontare, ma si può scrivere e si può leggere.
Oggi so di chi era quella malinconia. Oggi so che quelle note porteranno sempre con loro quest’anima sconosciuta, ma così vicina, quel suo “qualcosa” e la mia incredulità. So che non potrò più ascoltarle senza pensare ad un volto mai visto, ad una bicicletta e all’odore di un maglione di lana. Ascolterò e ti ricorderò, ovunque saremo, qualunque cosa ci sarà successa, lontani come ora, lontani come sempre.
Ascolterò e ti ricorderò.

martedì 9 ottobre 2007

Giornata di suicidio … pensando a Ben Sanderson

Tratto dal film Leaving Las Vegas (1995), scritto e diretto da Mike Figgis, con Nicolas Cage ed Elisabeth Shue. Il brano musicale “Lonely Teardrops” è di Berry Gordy interpretato da Michael McDonald.

Ben Sanderson, an alcoholic Hollywood screenwriter who lost everything because of his drinking, arrives in Las Vegas to drink himself to death.

Molte volte ho pensato al suicidio, quante volte ne ho parlato, sin da giovane adolescente, rabbioso e schifato di tutte le menzogne che riempiono questo nostro mondo. Quante volte, con quelli che un tempo furono amici, ho cercato di immaginare come sarebbe stato porre fine alla propria esistenza. E quanto è stato difficile ammettere che in nessun modo sarei mai riuscito a tagliare il filo vitale, il desiderio biologico, inscritto nelle istruzioni primordiali, di continuare a bruciare ossigeno e trasformare materia, di continuare ad esistere.
Oggi, dopo aver gettato via tutto il poco di buono che mi è stato concesso, le cose sono diverse. Sono diverse perché ho scoperto che è possibile vincere gli ostacoli che ci legano alla nostra esistenza. Sono diverse perché ho incontrato Ben Sanderson.
La prima volta che l’ho incontrato non ci ho fatto caso, ero distratto nel trascinare il mio vivere lungo le strade della mia insensata esistenza. In seguito, incontratolo nuovamente, ho capito la forza della sua scelta, la possibilità di poter realizzare quello che pensavo impossibile e tutto è cambiato.
Da allora, so che la cosa è possibile, so che non devo preoccuparmi e che l’unica cosa di cui avrò bisogno la sto guadagnando giorno dopo giorno.
Prenderò i mie risparmi, li investirò in alcool e me li berrò tutti fino alla fine. Niente più ostacoli biologici, niente più freni morali, tutto sopito da vapori di alcool senza fine. Fino alla fine.
Oggi è una giornata di suicidio e di …

domenica 7 ottobre 2007

La più lontana

Mi ritrovo di fronte a questa stazione, so come ci sono arrivato e so anche perché sono qui. In questo spazio e in questo tempo sembra che io sappia molte cose. Qui sono a mio agio, nulla può ferirmi, nulla può cambiare, nulla può essere scritto. Attraverso la porta, senza aprirla, senza camminare, mi muovo in maniera diversa. Guardo i cartelloni degli orari, pochi treni passano in una giornata su questa linea monobinario, linea che arranca verso i monti dai riflessi rossi e dal nome francese. Nessuna presenza nell’atrio, niente personale di servizio, non si acquistano qui i biglietti, la stazione è ormai morta. Esco sulla banchina, so dove devo andare. Mi fermo a respirare l’aria fresca di questo inverno senza neve, guardo, la davanti, le montagne con quel loro verde scuro e cupo che ancora mi porto dentro. E’ ormai cominciata la sera, e lungo i binari non c’è nessuno, so solo che alla mia sinistra, seduto sull’ultima panchina, la più lontana, c’è un ragazzo, mi giro e lo vedo laggiù. Testa bassa, musica nelle orecchie, occhi stanchi, aspetta il treno che lo riporterà, come ieri e come domani, al paese prigioniero di quei monti che gli hanno già chiuso l’anima. Mi avvicino a fatica, ogni metro amplifica il dolore, e mi siedo su quella panchina, la più lontana. Davanti, un pennacchio di vapore continuo disegna forme bianche sullo sfondo verde, si lavora il legno laggiù. Guardo quel ragazzo, il suo modo di vestire, il suo tentativo di cantare, a bassa voce, quelle note che lo difendono dal mondo. Conosco le sue speranze, il suo dolore e le sue gioie. Ha il futuro fra le sue mani, fra qualche mese si laureerà, la tesi è quasi finita. Lui non sa quello che so io, lui non immagina quante case abiterà, quello che perderà e quello che incontrerà, quante volte scapperà da se stesso dando la colpa a ciò che lo circonda, per poi trovarsi nuovamente solo a ricominciare un’altra volta. Vorrei potergli parlare, ma non mi è possibile, non può ascoltarmi. La sua presenza vicino a me comincia a farsi pesante, i miei occhi si velano di liquido che non voglio lasciar cadere, lui si gira, mi guarda senza vedermi ed io, riflesso nei suoi occhi, gli dico di stare attento, di stare attento alle scelte che farà, perché ho capito che anche la più sciocca delle scelte ti può cambiare la vita. Gli dico di non nascondersi dal mondo, di scegliere una panchina più vicina alla gente, di uscire di casa, di non fare quello che ho fatto io. Mentre sto ancora parlando lui si alza, è arrivato il treno. Non posso fermarlo e so che non lo rivedrò mai più. Rimango solo su questa panchina, la più lontana, con la musica nelle orecchie aspetto il treno.
Quelle che lascio oggi su questa banchina sono lacrime vere.
Ciao ragazzo.

Piango

Piango note che non ho ascoltato, piango una foto che non ho mai visto, ma che già conoscevo. Piango quell’immagine in bianco e nero, quel volto perfetto, mai incontrato, ma tante volte desiderato. Piango lo sguardo oltre il vetro, piango quel volto, quegli occhi. Piango i capelli perfetti, il naso simile al mio. Piango quegli occhi tristi, il profilo pieno di pensieri. Perché tanto dolore? Cosa c’è di vero? Non vorrei averti mai incontrata, forse ti ho solamente sognata. No lacrime da spargere, i miei occhi ti chiedono scusa. Non sei reale, non sei mai esistita, facile perfezione di un desiderio da troppo tempo abbandonato. Non posso non guardarti, non posso non tenerti con me, ma non ci sei, non esisti, l’immagine di te è solo finzione, fortemente desiderata. Torno all’immagine, perché mi è consentito l’accesso? Sono fra i più fortunati o ti sei sbagliata? Questo è vero dolore, inutile, mio, solamente mio, ma vero. Non sarai con me, non lo sei mai stata, ma dove andrai adesso? Non esisti, solo nella mia mente hai dimorato, non ci sei, non sei reale. Nessuna lacrima io piango, nessuna lacrima ho mai pianto. Mi manchi anche se non ci sei mai stata, mi uccidi anche se non ne sei consapevole. Hai chiesto scusa per le tue non parole, ti ringrazio per quelle poche sillabe. Questo è un pianto a secco, è il mio pianto, ultimo dono a quello che forse sarebbe potuto essere il mio futuro. Addio.

giovedì 4 ottobre 2007

Camminando

Cammino per le strade di una città in cui non sono mai stato, una città che non conosco, una città nella quale non andrò mai. Le vie illuminate da pochi lampioni, nascondono nell’oscurità dei loro vicoli presenze che non riesco a vedere. L’eco dei miei passi risuona attorno a me, qualsiasi direzione io prenda porta sempre nello stesso luogo. Poche auto abbandonate, nessuna luce dalle finestre, la vita da queste parti sembra mancare da molto. Nessun fantasma ad indicarmi la via, nemmeno loro frequentano più questo luogo. Nelle narici entra odore di muffa e nebbia, qualche goccia cade dai rami secchi di un vecchio albero imprigionato dal cemento. Le gambe stanche trascinano il resto delle mie ossa verso un futuro ormai noto. Il cielo non si lascia guardare ed una brezza affilata accarezza il mio volto. Lungo il cammino la luce diventa sempre più fioca e la fatica irrigidisce i muscoli e i nervi. Nessuna paura, nessun timore, solo il dolore che le articolazioni producono scricchiolando come vecchi ingranaggi. Corpo silente, arranco appoggiandomi alle pareti di oggetti che non conosco. La forza mi abbandona, come ogni giorno, mi ritrovo in ginocchio con le mani appoggiate a terra. Cerco di resistere, provo ad emettere qualche suono, una richiesta d’aiuto, ma non riesco ad usare le corde vocali ormai completamente secche. Nel tentativo di alzarmi mi ritrovo steso a terra. La faccia, appoggiata ai cubi di porfido, guarda il buio dal basso. Gli occhi si chiudono, non oppongo resistenza, è finita. Per ora è finita.
Senza preavviso, senza nemmeno rendermene conto, mi ritrovo nuovamente in piedi. Sto camminando sulle stesse strade di una città che non ho mai visto, attorno a me poca luce, solo qualche lampada rinchiusa da vetro ormai opaco. Una smorfia sul volto tradisce la consapevolezza. So dove sto andando, ma poco importa, fra non molto lo avrò già dimenticato.

lunedì 1 ottobre 2007

Freddo

Gli atomi, isolati o aggregati in molecole, riducono la loro frequenza di vibrazione. In un metallo molto freddo, gli atomi ai vertici del reticolo, quasi immobili, rendono più facile il flusso di elettroni attraverso una differenza di potenziale elettrico.
Un essere umano al freddo trema, così facendo cerca di riscaldarsi, è una reazione incontrollata, lo chiamano istinto di sopravvivenza.
Un essere umano freddo è morto.
Un essere umano senza cuore viene spesso indicato come un tipo freddo. In effetti, senza il cuore un essere umano è morto.
Il freddo allontana le emozioni, riesce persino a congelare i pensieri.
Ricordo d’inverno, quando ero molto giovane, diciamo venti anni fa, ed uscivo di casa alle 06:00 per andare a prendere la corriera, a -15 °C i pensieri mi si congelavano di colpo. Solo dopo cinque minuti di corriera riuscivo a ricordare quello che stavo pensando appena uscito di casa.
Mi manca il freddo.
Mi manca il freddo che ho portato dentro per molti anni, mi manca davvero molto.
In questi momenti, quando penso alla forza di un ragazzo incazzato, al suo freddo disprezzo per ogni cosa, capisco di essergli ormai troppo lontano. Non vorrei esserlo, ma sono diverso.
Quando le foglie cominciano a cadere, io mi ritrovo a sperare che il freddo che verrà possa entrare nel mio petto per ridarmi quella forza, per estirpare queste inutili emozioni, lasciando solo ossa e carne.
Aspetto il freddo e mi auguro che quest’anno possa scolpire un uomo senza cuore, un uomo morto.